La leggenda di Sepoy
Una notte un uomo si svegliò in mezzo al deserto, senza sapere quanto aveva camminato né perché.
Era sdraiato sul dorso, con le gambe e le braccia allargate come se fosse in croce. Sentiva le labbra secche e gli pareva che persino la luna, l’immensa luna dei deserti, succhiasse ogni umore da quel corpo ormai quasi essiccato. Il freddo gli ridette qualche sprazzo di lucidità. Cercò di mettersi a sedere, gli girava la testa per la stanchezza, ma alla fine ci riuscì. Si guardò intorno cercando di capire com’era finito lì. Lo sguardo spazzò il buio orizzonte alla ricerca di una palma o qualcosa che indicasse un’oasi anche piccola piccola, ma che avesse un pozzo. Nulla: non c’era nulla.
Lentamente come in un lampo si ricordò gli ultimi avvenimenti.
Seduto sul suo scranno al centro della piazza del mercato, immerso nel pulviscolo dorato dell’aria, stava leggendo un libro a quanti si fermavano ad ascoltare. Ashmet era un raccontatore di professione e viveva delle elemosine degli ascoltatori.
Si accontentava di poco e a volte se era fortunato qualche anziano lo invitava a casa sua per mangiare insieme, bere il tè o recitare le preghiere della sera.
Gli piaceva il lavoro che si era scelto, faticava poco, gli piaceva leggere e soprattutto adorava lo sguardo delle ragazze che si fermavano sotto il tetto di paglia per ascoltarlo. I volti erano celati dal velo, ma proprio per questo lui poteva immaginare bellezze meravigliose solamente spiandone gli sguardi.
Il libro che stava leggendo, preferendolo agli altri tre che portava con sè da un paese all’altro, parlava di leggende. La sua voce s’inanellava, s’inerpicava, scendeva in veloci curve buie dando corpo alle immagini della storia. Gesti mai uguali rendevano vive le sue interpretazioni e se si accorgeva che il pubblico era senza fiato per il piacere dell’ascolto, accentuava la sua abilità narrativa per strappare maggiori applausi e soddisfazioni. Sembrava che con i gesti dipingesse l’aria.
Quel giorno aveva scelto di leggere la storia dell’Uccello Sepoy, che a lui piaceva tanto.
Si narrava di un uccello magico, che donava il potere assoluto, ricchezze e felicità a chi fosse stato capace di catturare la sua ombra mentre volava alto nei cieli il primo giorno di primavera; quello era appunto il primo giorno di primavera.
Di Sepoy si diceva che avesse ali blu grandi come una nuvola e il collo lungo e aggraziato che si muoveva durante il volo come in una danza, ricoperto di un piumaggio d’oro, luminoso come sole a mezzodì.
Il corpo invece era rosso fuoco, simile alle rose di Bagdad nel giardino del Califfo. La leggenda raccontava che al suo passaggio i fiori stessi rimanessero attoniti a vedere tanta bellezza e a volte si mettessero a cantare.
A questo punto di solito Ashmet intonava una nenia dolcissima che incantava il pubblico e alla fine si scusava per avere osato imitare il canto del leggendario uccello, la sua modestia piaceva e attirava simpatie.
Quel giorno non cantò.
Improvviso alto nel cielo era apparso Sepoy.
Volava in cerchio lentamente e imponente come una passione folle, sfidando quegli uomini a catturare la sua ombra; sembrava persino che sorridesse con cattiveria perché sapeva di essere “la tentazione”, a cui forse sarebbe seguita la condanna.
Gli spettatori rimasero immobili come per magia, ma ad una persona sola era consentito raccogliere la sfida di Sepoy.
Ashmet era allibito, mai avrebbe pensato che la storia fosse vera, ma se quella era la sua unica possibilità di diventare potente come il Visir, non se la sarebbe lasciata scappare.
Improvvisamente si vide com’era: un poveraccio che appena sopravviveva alla fame. Vide la sua tunica di lana grezza strappata, il suo letto vuoto d’affetti, la vecchiaia che gli sorrideva seduta su una lapide e nessun figlio maschio che piangesse sulla sua tomba.
Desiderò ciò che non aveva mai desiderato: sete e broccati che scivolassero sul suo corpo reso morbido dagli unguenti, calici d’oro colmi di spezie esotiche, una donna bianca come un fiore di loto e flessuosa come un giunco al suo fianco, meglio due, profumate con olii preziosi.
Desiderò una vita diversa e tanti figli che tramandassero e onorassero il suo nome.
Gettò a terra il libro e si mise ad inseguire l’ombra.
Corse tutto il giorno, attraversò dune di sabbia infuocata, scavalcò uadi secchi, calpestò impronte di serpenti, affondò gli occhi nel sole mentre uno scorpione lo guardava stupito.
Ora era in mezzo al deserto, solo e immobile nel silenzio della notte, ombra nell’ombra, ancora vivo per il tempo di un sospiro, ma senza rimpianti: almeno una volta aveva osato sognare.
Contemplando l’infinito, capì che nessuna felicità o morte ha un nome vero.