Autore Topic: Ludovica  (Letto 1104 volte)

dorotychecorre

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Ludovica
« il: Febbraio 04, 2014, 07:29:32 »

Ludovica


Lo guardava vestirsi come un officiante meticoloso. Era seduta sul bordo del letto. Non poteva fare niente per lui così, si mise a seguire la lenta discesa di una goccia d’acqua sui vetri: l’ultimo scroscio di pioggia l’aveva lasciata lì, sola, come un’invitata di una festa finita all’improvviso.
Suo marito uscì mentre lei era ancora seduta sul bordo del letto.
“Oggi non vado a lavorare”; quella possibilità balenò all’improvviso nella sua mente.
“Non vengo oggi, ho la febbre” disse al telefono. Faceva la segretaria in un centro diagnostico. Si vestì in fretta. Uscì.
Il bar di Luigi era ancora chiuso, da tre giorni ormai,  strano, è scappato anche lui, pensò. L’assenza di Luigi le fece sentire più forte la sua inadeguatezza: anche lei non era dove avrebbe dovuto essere.
Recuperò la sua auto dal garage, si diresse verso il litorale. Non viaggiava su quella strada da molto tempo. Fu felice di ritrovarla intatta, così come l’aveva vista l’ultima volta, quella sera: 365 giorni sono molti anche per la vita di una strada, in un anno può cambiare qualunque cosa, basta anche un giorno o un  minuto a volte.
Il mare quella mattina guardava placido le sue onde ricorrersi sul bagnasciuga. Ludovica lo conosceva bene, conosceva i suoi umori e la sua forza.  Mentre lo guardava dallo specchietto retrovisore, provò la stessa gioia incredula di chi ritrova una persona amata creduta persa per sempre.
Ludovica amava il mare. Aveva trascorso tutte le vacanze della sua infanzia alla casa al mare di zia Ester e zio Valerio, con suo fratello Lorenzo. Non avevano cugini, i loro zii non avevano figli e i loro genitori erano sempre alle prese con i lavori in corso del loro matrimonio sempre da riparare. Glieli affidavano volentieri durante il periodo estivo.
Zia Ester allora era una donna di trentacinque anni, piccola di statura con un corpo sottile: piccole caviglie, piccoli polsi, piccole dita. Una miniatura armonica. Negli occhi neri, uno sguardo malinconico, come un presagio o una notte di fine estate.
Zio Valerio la sovrastava, era un uomo altissimo, poderoso.  Un ingegnere edile con la passione per le immersioni subacquee.
Le favole che raccontava ai suoi nipoti erano tutte ambientate in Malaysia, erano le storie vere delle sue immersioni in quella terra in cui era ritornato mille volte,  dove aveva scattato miriadi di fotografie e ne aveva tappezzato tutte le case in cui aveva vissuto. Voleva ricrearsi attorno quel mondo sommerso in cui si sentiva pacificato e fluido, lui, così spigoloso e inarrivabile che quando parlava dei fondali marini si commuoveva di un’emozione arresa. I bambini, grazie a lui, conoscevano il pesce mandarino che compie la sua danza proprio sotto la superficie dell’acqua, i coralli di Sipadan e gli squali dalla pinna bianca, le seppie giganti e i grossi pesci pappagallo dalla fronte gibbosa.
La casa degli zii era enorme. Ogni suo frammento  si animava all’arrivo dei bambini, la loro energia era una corrente sanguigna che scorreva dalla cantina alla soffitta polverosa.
Il pavimento sconnesso con le piastrelle di ceramica blu con ancora qualche pretesa di bellezza, le cassapanche addossate ai muri con i loro lucchetti penzolanti invitanti, un vago alito di naftalina, l’orlo di ragnatela sul bracciolo di una sedia a dondolo: questo, ai loro occhi, apparve, la prima volta che videro quella soffitta; un vecchio grammofono con il suo collo lungo di dinosauro e la bocca spalancata, e al centro della stanza, uno specchio, con le lentiggini di ruggine come orme di piccoli baci depositati dal tempo. Ludovica aveva otto anni, Lorenzo sei. Si guardarono nello specchio quel giorno e furono  come trasportati altrove, forse nel doppiofondo segreto del tempo. Era una  malia sconosciuta quella che animò le loro azioni da quel momento in poi.
Quando ritornarono a guardarsi attorno, ormai abituati alla fioca luce di una lampadina avvolta in una barba di polvere compatta, erano fuori dal loro tempo. Aprirono una vecchia cassapanca. Dentro c’era una carta a fiori sbiadita. La cassa era piena di vecchi abiti.
Ludovica trasse dal ventre di quel relitto e li indossò un cappellino nero con la veletta a pois dello stesso colore, un tubino di velluto con una rosa a mò di fibbia sulla cintola; il fratello scavando accanto a lei, trovò un paio di scarpe decolté, tacco a spillo, e in una scatola di latta adagiata sul fondo, una lunga collana di perle bianche. Sotto, piegati e avvolti in una busta trasparente, dei guanti candidi, lunghi come due braccia di panna lucida.
Eccola, davanti allo specchio, con la mano destra aperta sul cuore: Ludovica.
“Lorenzo metti un disco sul grammofono “ gli chiese di fingere.
“ Che cos’è il grammofono?”
Glielo indicò languida con un cenno della piccola mano guantata.
“Tu metti questi”  un cappello nero e una cravatta a rombi grigi e neri.
Danzavano davanti allo specchio, caracollanti e spavaldi, padroni  di quel loro tempo fuori dal tempo, perfettamente a loro agio nell’enormità di quegli abiti fuori misura.

“Zia Ester abbiamo giocato con i vestiti in soffitta”.
“Me ne sono accorta, avete lasciato tutto in disordine; le patatine scottano fate piano”.
“Ci sei andata anche tu?”
“Si vorrei fare una fotografia a quel vecchio grammofono, ci facciamo un bel quadro, vi piace l’idea? Anzi, ne facciamo due e uno lo regaliamo al vostro maestro  di musica, che ne dite?”
“E’ più bello lo specchio”.
“Come mai ti piace quel vecchio specchio?”
“Non lo so, chiedi a Ludovica”.
“Perché lo specchio parla”.
Ridevano, felici di poter dire tutto quello che gli passava per la testa. Con i genitori non sarebbe stato possibile.
“Lo specchio parla, interessante, e cosa dice?”
Soffocavano le risate riempiendosi la bocca di patatine fritte.
“Lo specchio si conserva le persone”.
“Come le fotografie vuoi dire?”
“Sì”.
“Se ci passi davanti lui poi si ricorda e se ci passi dopo tanto tempo lui poi ti fa vedere com’eri”.
“Meraviglioso, avevamo uno specchio magico in soffitta e non lo sapevamo, dovrò informare zio Valerio appena tornerà”.
“Ma non fa vedere tutti, solo quelli belli, non si ricorda mica di tutti”.
“Di te si ricorderà Lorenzo, perché secondo me sei proprio bello”.
“Ma perché tu sei zia Ester“.
E scoppiarono in una risata con uno spruzzo pirotecnico, alto, di patatine e d’infanzia.

Erano passati trent’anni da allora; quei due bambini avevano vissuto gran parte della loro vita, dei loro sogni, giochi, conquiste, compleanni, vittorie, sconfitte, a casa degli zii, al riparo dalla disfatta dei loro genitori.


Ludovica si ritrovò davanti alla porta di quella casa. Ci era arrivata senza averlo neanche deciso. I ricordi le vennero subito incontro come cani festosi. Bussò. Attese.
 La vecchia governante aprì, la guardò. Non la vedeva da un anno. La fece entrare.
“Zia Ester come sta?” chiese.
 “Quasi sempre seduta sulla sua poltrona negli ultimi tempi. Non ha niente di particolare, il dottore dice che è solo stanca.”
“Adesso sa?”
“No. Mi dispiace per suo fratello signorina, mi è dispiaciuto molto.”
Chiese di vederla.
Percorsero l’ampio corridoio, poi la scala. Oltrepassarono due finestre, aperte sul chiacchierio degli alberi e del vento appena venuto dal mare. Arrivarono davanti ad una porta socchiusa. La governante la guardò per un attimo lunghissimo. Ludovica era di nuovo lì. Dopo tanto tempo. Se ne andò.
Dormiva. Di spalle alla porta, rivolta verso la finestra. Zia Ester dormiva. Ludovica le si sedette accanto, meravigliandosi di tutto lo spazio che quel piccolo corpo lasciava vuoto. L’accarezzò a lungo, le raccontò tante cose, a bassa voce, concitatamente, come faceva quando era piccola e non vedeva l’ora di essere consolata.
Zia Ester era bravissima a consolare i bambini cantando:

C’era una volta un drago
 Che cadde dentro un lago
 Fece una capriola
 E si schiarì la gola

La cosa lo fece ridere
Ma ridere di cuore
Non pianse neanche un po’
E il dolore gli passò.

Ludovica si assopì e quel sonno fu come un punto alla fine di un lungo periodo. Uscì dal suo tempo per entrare in un tempo rallentato, denso, il tempo in cui viveva zia Ester.
Sognò, in un dormiveglia sudato. Era di nuovo piccola, correva su di una scala, era la casa di zia Ester, la riconobbe dal grande quadro con la foto del grammofono appesa nel salone subito a destra dell’ingresso.
Correva, contava le scale otto nove dieci… quindici, aprì. La porta della soffitta si spalancò, lei entrò, di nuovo concitata, non diede  il tempo ai suoi occhi di abituarsi al buio né alle sue mani di cercare l’interruttore della luce, inciampò, riuscì a non cadere, saltellando recuperò l’equilibrio, trovò l’interruttore e una luce fioca inondò volenterosamente la stanza lasciandone  comunque la metà in penombra.
Era lì davanti finalmente, davanti allo specchio.  Era quello che stava cercando. Affannata per la corsa guardava,  respirando velocemente, la sua immagine riflessa. Vedeva un vestito a fiori rossi, gialli, un corpetto stretto su di una gonna ampia a pieghe. I calzini bianchi con il merletto sull’orlo e le scarpette rosse con la cinghietta a forma di farfalla. Il cerchietto rosa nei capelli biondi a caschetto e gli occhi pieni di lacrime.
Chiamava qualcuno guardando dentro lo specchio, come se si aspettasse di vederlo comparire all’improvviso sorridendo: “Dai non piangere, volevo solo farti uno scherzo”. Aveva già sognato quella scena molte volte.

 Si svegliò. La  vide seduta sulla poltrona di fronte alla finestra ma non guardava fuori, guardava lei e sorrideva, per niente meravigliata di vederla lì.
“Ciao. Lorenzo non è venuto?”
“No zia Ester.  Come stai? Ti va di fare una passeggiata sulla spiaggia?”
“Che ore sono?”
“Non lo so”.


Camminavano lentamente, sul lungomare.
“ Non sono venuta a trovarti prima perché i tuoi dottori mi hanno detto che dovevi riposare. Adesso come stai?”
“Lorenzo non è venuto?”  Rispose, come se non avesse proprio sentito.
“No, zia Ester.  Non verrà”  aggiunse, sentendosi quasi colpevole.
“Non avete concerti da studiare?“

Non suono più . Lorenzo è morto. Il suo violoncello e il mio violino sono chiusi in soffitta, a casa tua.
“No, adesso no. Cosa fai tutto il giorno, viene a trovarti qualcuno?”
La guardò con un sorriso che chiedeva la sua complicità, forse. Stiamo in silenzio, sono tanto stanca.
Camminavano così, vicine, appoggiate l’una all’altra, come due tessere spaiate di un puzzle inghiottito dal vento.
 “Ho sognato che Lorenzo era furioso con te perché avevi rotto il violino: lo hai rotto veramente?”
Non suono più. Avrebbe voluto dirglielo. Zia Ester Lorenzo è morto. Il suo violino e il mio violoncello sono chiusi adesso. Lorenzo è morto e con lui zio Valerio, tuo marito. Stesso incidente. Tu non ti ricordi. La notizia della morte di tuo marito, dicevano i medici, ti aveva smarrita. E’ facile smarrirsi senza luce. Le persone come Lorenzo e zio Valerio se ne stanno lì, con quella loro meravigliosa grandezza, con tutta quella luce che gli avanza, leggeri come grappoli di lucciole. Quando si spengono non c’è più rimedio alla notte nel loro mondo, le tenebre divorano velocemente anche l’ultimo avanzo di quello splendore. Ci siamo persi in questo buio: io, tu, i miei genitori; a proposito, si sono separati, li vedo poco. Io mi sono messa dentro una vita qualunque, come un vestito tirato su in fretta, il tempo di chiudere una lampo, un lampo, corto circuito di una vita e il dolore piegato piccolo in qualche angolo del cuore, sperando di dimenticarlo lì, sotto un cumulo di altri ricordi.
Zia Ester, sono finalmente qui, , a ricordarmi chi sono, perché ho capito che se apro gli occhi la notte si rischiara.
La sentì tremare, capì che doveva riportarla a casa.
La riaccompagnò alla sua poltrona.
“Ludovica”.
“Sì?”
“Lorenzo verrà con te la prossima volta?”
“No, zia Ester.  Non verrà”, aggiunse a bassa voce.
S’incamminò verso la porta, le sembrava di aver lasciato il filo del suo aquilone.
“Ma io tornerò, non volare troppo lontano perché io ritornerò.”
Salì in soffitta, la porta era socchiusa. Entrò. Cercò le custodie dei loro strumenti, le trovò quasi subito. Le portò accanto alla specchio, le aprì.
Accarezzò le corde , una ad una, le riconosceva dallo spessore, con una familiarità intima, straziante. Le lasciò così, le custodie aperte, di nuovo esposte all’oltraggio del tempo e della polvere. Sarebbe stata costretta a tornare per occuparsi, ogni volta, di quello che rimaneva.
Uscì. Era ora di tornare a casa. Francesco la stava aspettando.

Zia Ester guardava il mare ora. Un pianeta azzurro apparentemente sempre uguale di cui lei conosceva ogni increspatura. Da qualche tempo stava studiando di quanti colori può essere: azzurro, blu, indaco, cobalto, bianco.
C’era un azzurro, che il mare indossava pochi attimi dopo certe albe. Era poco più di un’ombra: bisognava avere occhi attenti e una certa esperienza per riuscire a scoprirlo. Lei lo aveva visto dopo tanto tempo che scrutava.
Lo vide un giorno e la dolcezza di quella visione non le lasciò dubbi sul nome da dare a quell’azzurro.













     

Dorotychecorre

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Re:Ludovica
« Risposta #1 il: Febbraio 04, 2014, 08:06:09 »
doroty, sempre una sorpresa, sempre bello leggerti, scoprire i tuoi personaggi, così pieni di vita e particolari. Bentornata, ci sei mancata. :rose:

dorotychecorre

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Re:Ludovica
« Risposta #2 il: Febbraio 04, 2014, 11:19:27 »
Anche voi mi siete mancati molto. Grazie. Felice di essere di nuovo qui con voi. Doroty
Dorotychecorre