Stavo lì seduta ad un tavolo e bevevo solo acqua leggermente frizzante, la vicina accanto a me raccontava di quando lavorava e si alzava alle cinque del mattino per preparare il pranzo. I figli che portava a scuola e riprendeva nel pomeriggio e mentre così diceva aggiungeva che se avesse avuto una seconda vita lo avrebbe rifatto, sì, tutto quel grande andare e tornare e preparare, e suo figlio all'altro capo del tavolo che l'ascoltava e i suoi occhi sembravano spenti, o forse ero io che li ho visti spenti, pensavo a lui bambino che non aveva avuto il tempo di chiedere, o forse che aveva chiesto così tanto che non ricevendo risposta si era rassegnato. Il padre in fondo al tavolo impettito col suo completo blu sembrava così distante da quella compagnia che ad un certo punto m'ero pure dimenticata che fosse presente, insomma una famiglia, quella, come ce ne sono tante, appunto, come tutte quelle che si dicono normali, e magari uno ci crede a quella normalità lì, e poi scopre chiedendoselo per la prima volta: ma che cos'è la normalità?
A quel tavolo in verità sembravamo tutti sbandati, compresi i bambini che si erano trovati assemblati come i pezzi di una macchina solo perché bambini e si sa possono stare tranquillamente tra loro anche se non hanno niente in comune.
Ad un certo punto il mio mal di testa continuava a pulsare come un martello pneumatico la mia tempia sinistra, e l'unico desiderio era quello di alzarmi da quel tavolo e andare via. E invece sono rimasta a guardare tutti, me compresa, senza battere ciglio. Ho capito tante cose, ho capito che tutti abbiamo una storia da raccontare attraverso il nostro corpo, i nostri modi, le nostre idee, e ognuno si porta dietro la sua storia ogni volta, tutte le volte.