Che stavo dicendo? Ah sì! A me quando arrivava settembre mi giravano fieramente le palle.
Ma non per il fatto che ciò rappresentava la fine dell’estate e l’inizio della scuola, ma perché vedevo
che per gli altri era normale. Ma come, mi dicevo, nessuno si ribella? Prolunghiamo l’estate per sempre,
stiamo all’aria aperta, che ci frega di obblighi e doveri? Niente, intorno a me non avevo né complici
né alleati e i cosiddetti amici andavano a comprarsi dei nuovi quaderni, le penne, i diari e riprendevano la cartella dall’armadio.
Io non odiavo la scuola, per carità. Odiavo però il dover star seduto per forza, ascoltare vecchi tromboni su
argomenti che non mi interessavano e mi rifiutavo di avvicinare il banco alla cattedra per avere un voto in più.
Io volevo essere libero di leggere quel che mi pareva, di starmene sdraiato in un prato a decifrar nuvole e soprattutto volevo avere il mio tempo da dedicare all’arte.
Sì, lo confesso, mi sentivo un artista, un vero invasato dal sacro fuoco.
Un giorno presi dal salone un vaso ben decorato, forse dell’epoca Minghia, lo gettai in terra riducendolo in mille pezzi
che incollai su un foglio di compensato ricoprendo il tutto con strati leggeri di pittura blu e gialla.
Ai miei cari accorsi a vedere cosa fosse quel trambusto annunciai giulivo: “Ecco il mio ultimo capolavoro! PAZZA CERAMICA!”
Mio padre si mise una spilla nera in segno di lutto per quell’unico figlio maschio ormai considerato perduto e riprese
la lettura del suo quotidiano preferito, mia sorella fece spallucce e continuò la telefonata con un’amica per spettegolare
su chissà cosa, mentre mia madre dopo essersi messa uno scialle mi prese tra le sue braccia e con la voce strozzata
dalla commozione sospirò: “Ti aiuterò io, figlio mio.”
Dopo una settimana mamma mi portò da uno psicologo che le aveva consigliato una collega di lavoro.
“Vedrai, disse, questo bravo medico ti guarirà, stai tranquillo.” Io ero tranquillissimo perché non mi sentivo affatto
malato e per accontentarla, visto che mi aveva regalato 50 euri, la seguivo docilmente. Per di più speravo che quella
visita mi avrebbe fruttato qualche pillola spiritosa.
Il dottore mi fece entrare nel suo studio pregando mia madre di aspettare fuori perché il colloquio era riservato.
Era un medico giovane, con la barba di prammatica, gli occhialini intellectual e una sciarpa viola di cachemire che
gli invidiai tutto il tempo.
Cominciò subito con una sfilza di domande.
Ti senti perseguitato da qualcosa o da qualcuno?
No.
Credi che le persone che ti stanno accanto vogliano avvelenarti?
No.
Cosa ti fa venire in mente l’immagine di tua madre nuda?
Vomito.
Hai mai sognato di decapitare tuo padre?
No.
Fai pensieri erotici su tua sorella?
Non ho pensieri su mia sorella.
Il dottore ispirò lungamente, annotò qualcosa sul taccuino ed emise un uhm uhm uhm.
Poi mi mostrò alcuni fogli dove c’erano delle macchie nere.
Cosa vedi qui?
Due ballerini.
E qui?
Una coppa di vino.
E qui?
Un pagliaccio che ride.
Il dottore riprese il taccuino e borbottò di nuovo quel suo uhm uhm uhm. Si alzò dalla poltrona, aprì la porta
e fece entrare mia madre che quell’attesa snervante in anticamere aveva ridotto ancora di più uno straccio.
La genitrice era pallida e aveva gli occhi gonfi di pianto, prese le mani del medico e gli chiese: “Dottore che ha mio figlio?
È pazzo? Schizzofrenico? Complessato?”
Lo psicologo sorrise dolcemente, guardò me e poi rispose: “No signora stia tranquilla, è uno stronzo qualunque.”
