Autore Topic: Scienza e psicologia  (Letto 7415 volte)

Doxa

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Scienza e psicologia
« il: Ottobre 18, 2013, 17:15:58 »
In questo forum letterario non c’è una sezione dedicata alla psicologia, eppure ci sono dei  nessi tra psicologia, psicoterapia e creazione artistica, che comprende anche la poesia e la prosa. Ne è la prova Il  “Centro studi di psicologia e letteratura” fondato a Roma il 30 ottobre 1992 dallo psicoanalista e scrittore Aldo Carotenuto (1933 – 2005), che  nella capitale fu docente di “psicologia della personalità”  all’università “La Sapienza”.

Anche se qui non c’è la sezione dedicata alla psicologia si può utilizzare la sezione dedicata alle scienze, perché la psicologia è anche scienza, fin dal 1879. Tramite l’uso del metodo sperimentale ed appositi strumenti tecnologici questa disciplina può studiare i processi mentali che intercorrono tra gli stimoli sensoriali e le relative risposte soggettive, indaga fenomeni quali la percezione e l'azione, l'attenzione e la coscienza, le emozioni e le motivazioni, la memoria, il linguaggio e il pensiero (ragionamento, soluzione di problemi, decisioni), le componenti conscie ed inconscie, i rapporti tra il soggetto e l’ambiente,  i comportamenti individuali e di gruppo (es. le dinamiche psicologiche nelle organizzazioni, nell’ambiente di lavoro), ecc..Le diversità di approccio hanno permesso delle ramificazioni e specializzazioni con differenti modelli epistemologici-culturali di riferimento e diversi metodi di ricerca.

Per quanto suddetto, continuerò a scrivere in questa sezione argomenti collegati alla psicologia usando questo topic come contenitore generalista.

nihil

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #1 il: Ottobre 19, 2013, 08:40:34 »
va benissimo, ti leggeremo con interesse.

nihil

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #2 il: Ottobre 19, 2013, 14:54:51 »
credo che dott, faccia bene all'occorrenza a risentirsi, visto che c'è chi attacca ancora prima che tutto abbia inizio. Dott, non ha mai detto che ciò che propone sia roba sua.
Se non sei d'accordo nessuno ti vieta di esprimerti, speriamo solo che tu non sia aggressiva come al solito.

Micio

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #3 il: Ottobre 20, 2013, 17:45:37 »
Eh ma abbiamo capito qual è la battaglia che vuole portare avanti e di cui vuol farsi paladino Dottorstranamore: dato che con le sue ricerche dei tanti autori, psicologi, psicoanalisti, psichiatri, filosofi, letterati,
e sessuologi  :redd:

Che non siano suoi i post è chiaro, ma piacerebbe (almeno a me) qualche suo pensiero in merito a ciò che pubblica, poi che condivida ciò che scriva è chiaro ma così non dice niente di se (o quasi)  ::)


Doxa

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #4 il: Ottobre 21, 2013, 11:38:14 »
Confessione e perdono

Il sostantivo femminile “confessione”deriva dal latino “confessio” e questo da “confessus”, participio passato di “confiteri” = “confessare”, dichiarare spontaneamente, ammettere un proprio errore.

La confessione libera la “coscienza” e svolge una funzione catartica.

Per alleviare l’afflizione c’è chi sceglie di confessarsi dal  presbitero e chi dal psicoterapeuta, perché  entrambi sono tenuti al segreto di quanto viene detto loro e ciò facilità la libertà di espressione delle persone. Ma la confessione di per sé non è terapeutica. Se lo fosse, i disturbi psichici e la sofferenza psichica non ci sarebbero. Non ci si può illudere che andando dal penitenziere o dallo psicoterapeuta si stia meglio o si guarisca dopo la confessione.

Dire ciò che fa soffrire è utile ma non sufficiente, perché siamo coscienti solo della parte più superficiale e non dell’inconscio. Infatti al prete  viene comunicato quel che “pesa” sulla propria coscienza, da lui si fa “l’esame di coscienza”, si dice quel che si conosce, invece dallo psicologo ci si va anche per scoprire alcune cose nel proprio inconscio che fanno star male.  E se la psicoterapia non funziona  la responsabilità è di solito equamente divisa tra  paziente e terapeuta, il quale non ha capito i problemi del paziente o non è professionalmente adeguato.

Il prete giudica, perdona in nome di Dio, commina penitenze,  indica il modo per espiare i peccati.  Invece lo psicoterapeuta non giudica, non commina penitenze, non assolve le colpe in nome di Dio, ma tenta di indurre il paziente ad auto-perdonarsi, lo aiuta ad accettarsi, a vivere in armonia con il proprio ambiente sociale, cerca di alleviare le sofferenze psicologiche, aiuta il paziente a comprendere le modalità di alcuni comportamenti.

Per la religione cristiana la confessione è un sacramento mediante il quale il penitente ottiene tramite il confessore l’assoluzione dei propri peccati. Chi per vergogna od altro non dice al confessore un proprio peccato, profana il sacramento e commette un sacrilegio. Allora è meglio rivolgersi dallo psicoterapeuta che ascolta senza condannare e se si tace un misfatto non si commette il sacrilegio.

La confessione religiosa è obbligatoria per i cattolici; molti la considerano benefica per l’anima (la mente); altri credono che dopo la morte ci sarà l’inferno per i peccatori, perciò confessano anche gli atti impuri per purificare l’anima ed avere la speranza di un posto nel purgatorio.   

Sant'Agostino ne “Le Confessioni” si domanda: "Perché mi confesso a Dio, che sa tutto ?" Se dio è onnisciente non c’è bisogno. "Il fatto è, prosegue Agostino d'Ippona, che non mi confesso soltanto a lui, ma di fronte a tutti gli uomini, per adempiere la Verità".

Nel periodo paleocristiano e tardo antico la pubblica confessione avveniva prima del culto liturgico. Nella Didachè c’è scritto: “Nella adunanza farai la confessione dei tuoi peccati e non ti recherai alla preghiera in cattiva coscienza... Nel giorno del Signore, riuniti, spezzate il pane e rendete grazie, dopo aver confessato i vostri peccati affinché il vostro sacrificio sia puro (Didachè 4, 14; 14, 1).

L’”impronta” di quelle  pubbliche confessioni ancora permane nell’attuale liturgia: durante la celebrazione della Messa i fedeli recitano la preghiera penitenziale, il “Confiteor” (= confesso) per ottenere il perdono divino. 

La Chiesa cattolica ha un'esperienza millenaria delle potenzialità terapeutiche del perdono e le ha elevate al rango di sacramento.

Il perdono ha un legame con il dono. Infatti chi perdona  non condona la colpa ma consente al perdonato di riflettere sulle sue colpe. Inoltre, la persona offesa trae beneficio dall’aver donato il perdono: si libera dall’ira e dalla vendetta, attenua l’ansia e migliora l’autostima.
« Ultima modifica: Ottobre 25, 2013, 09:54:46 da dottorstranamore »

Doxa

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #5 il: Ottobre 24, 2013, 14:31:07 »
Peccato e colpa

C’è differenza tra peccato e colpa ? Si, c’è !

Peccato: è la trasgressione di un precetto religioso, di una regola; induce il peccatore a pentirsi e a “consegnare” il male da lui compiuto alla misericordia divina, recitando preghiere e  l’atto di dolore. Se il peccato è una mancanza contro Dio ed un individuo non crede in Dio, ovviamente  per lui non è peccato.

Colpa: deriva dall’azione contraria alle norme o leggi vigenti, dal comportamento negligente od imprudente che causa danni agli altri. In ogni società c'è consenso diffuso circa le azioni che rendono colpevoli. Per esempio è colpevole chi ruba.

Differenza tra “senso del peccato” e “senso di colpa”. 

Il “senso del peccato” è attinente con la religiosità, con la teologia, riguarda il rapporto tra l’individuo e Dio.

Il “senso di colpa” è connesso con la psicologia, con l’Io, la personalità.  Suscita un’emozione endogena e la cosiddetta coscienza segnala un disagio, rimprovera se s’infrange il codice morale, che è in continua formazione fin dalla prima infanzia, e  “perseguita” fino a quando non ci attiviamo per rimediare con un gesto riparatore.

Collegare il senso del peccato al senso di colpa  è fuorviante, perché induce a pensare che sia peccato solo ciò che fa sentire in colpa.

Comunque peccato e colpa causano malessere se il proprio comportamento non corrisponde a quello dovuto o desiderato (ideale dell’Io). Allora si ricorre all’aiuto del confessore o del psicoterapeuta per liberarsi dal rimorso di azioni compiute nel passato e riportate o mantenute nella coscienza. Sono azioni che generano auto-rimprovero, auto-accusa, rimorso. Se prevale l’ossessione l’individuo tende a fissarsi nel ricordo del misfatto e nei suoi particolari. Pensa  a come avrebbe dovuto agire per non sentirsi in colpa né peccatore.  Se le proprie colpe vengono ingigantite si possono subire patologie psichiche.

Doxa

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #6 il: Ottobre 24, 2013, 14:38:14 »
/2

Per la Chiesa cattolica il peccato è una trasgressione alla “Legge di Dio” e verso il prossimo. 

La Chiesa distingue i peccati secondo il loro oggetto e li valuta secondo la loro gravità, per esempio un omicidio è più grave di un furto.   

Il peccato lo considera mortale se l’individuo disobbedisce i “Dieci comandamenti”, lo reputa veniale se la persona trasgredisce la biblica legge morale, che distingue il bene dal male.

Dal punto di vista laico la  legge morale è una regola di comportamento emanata dall'autorità competente per il bene comune. Viene appresa dal’individuo attraverso l’educazione valoriale e normativa da parte dei genitori  e di altre agenzie sociali.

La legge morale interiorizzata diventa coscienza morale, la “voce interiore” che esorta ed incoraggia, rimprovera ed accusa, approva e loda.

La coscienza morale presuppone una legge morale assoluta, la “verità” espressa da Dio, dalla quale  il soggetto attinge il proprio giudizio morale, l’imperativo etico che lo  “illumina” nelle scelte.   
 
Dal punto di vista psicologico la coscienza è la consapevolezza di sé (ho coscienza di me stesso, delle mie emozioni, sentimenti, pensieri, ecc.). Viene considerata “morale” quando l’individuo ha “costruito” dentro di essa un sistema di valori e di norme di riferimento che gli permettono di avere la soddisfazione per il bene compiuto ed il rimorso  se fa del male.   Infatti si usa dire: “liberarsi la coscienza da un peso”,  “avere la coscienza a posto”, “agire secondo coscienza”, “avere scrupoli di coscienza”, “avere la coscienza sporca”.

Dalla coscienza morale scaturisce il “senso del peccato”, detto anche “sentimento del peccato”  ed il “senso di colpa” o “sentimento di colpa”.

Il senso di colpa: deriva dal conflitto tra una pulsione e le esigenze dell'istanza morale. Si sviluppa con gradualità ed è condizionato da diversi fattori.

E' normale il sentimento di colpa provato da una persona che si considera (in modo cosciente e libero) l'autore o il complice di un'azione riprovevole. E’ invece patologico se non corrisponde alla reale colpa,  che può essere per eccesso ( se il soggetto si sente più colpevole di quanto lo sia in realtà) o per difetto (se nel soggetto manca o è scarso il sentimento di colpa per un reato rilevante).  La distinzione tra “normale”  e “patologico” è riferita solo al senso di colpa e non alla colpevolezza o alla coscienza morale.

Il sentimento di colpa è simile a quello della paura: ha una funzione difensiva. Il disagio  induce l’individuo a liberarsi dal male interiore tramite la confessione dal sacerdote o dallo psicoterapeuta.
« Ultima modifica: Ottobre 25, 2013, 08:39:21 da dottorstranamore »

Doxa

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #7 il: Ottobre 28, 2013, 08:40:13 »
Solitudine

Il  giovane poeta britannico Rupert Brooke (1887 – 1915) raccontò che sulla nave in partenza dall’Inghilterra verso l’America  fu coinvolto  da uno stato d’animo di profonda solitudine e tristezza vedendo gli altri viaggiatori  accompagnati da parenti ed amici che li salutavano, li abbracciavano, li baciavano, lui invece era solo, non c’era nessuno a mostrargli  che avrebbe sofferto la sua assenza.
Lo scrittore dice che c’era gente che sorrideva e gente che piangeva, c’era chi sventolava un fazzoletto bianco e chi agitava il cappello di paglia.  Allora lui pur di avere un commiato personale  offrì  6 scellini ad un ragazzo che era sul molo. Questo  acconsenti con entusiasmo e mentre la nave lasciava il porto salutava Brooke sventolando la sua bandana rossa.

L’intensità della sofferenza causata dalla solitudine può indurre a cercare rimedi a volte paradossali pur di attenuare il dolore.

Madre Teresa di Calcutta, che dedicò la propria vita al servizio dei poveri e dei malati,  disse che il sentirsi “trascurati, non desiderati, abbandonati e soli” causa molta sofferenza, a volte più dolore di una grave malattia.

La psicologa sociale Maria Miceli nel suo libro “Sentirsi soli” afferma che l’esperienza della solitudine, in forme e misure variabili, è  molto diffusa.

Se la propria infanzia è stata povera di affetti e di rapporti significativi, lascia dentro un vuoto incolmabile, dà la sensazione di essere emarginati, fa sentire estranei all’ambiente sociale in cui si vive, diversi ed incompresi se si hanno interessi e valori che gli altri non condividono.

Se l’individuo è aggressivo e competitivo gli altri lo evitano; se è timido ha difficoltà a comunicare ed aprirsi all’amicizia e gli altri lo ignorano. Se pensa di essere poco attraente o interessante,cerca di evitare gli altri per timore del loro giudizio.
 
Le ricerche di psicologia sociale evidenziano che la solitudine  “colpisce” persone di ogni età e di ogni condizione sociale, anche se con modalità diverse.

Il portoghese José Saramago (1922 – 2010) nel suo libro “L’anno della morte di Ricardo Reis” scrisse che  “La solitudine non è vivere da soli, la solitudine è il non essere capaci di fare compagnia a qualcuno o a qualcosa che sta dentro di noi, la solitudine non è un albero in mezzo a una pianura dove ci sia solo lui, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia, tra la foglia e la radice.”

Doxa

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #8 il: Ottobre 29, 2013, 07:32:20 »
/2

Paolo Giordano nel suo romanzo titolato “La solitudine dei numeri primi” narra le vite parallele di Alice e Mattia attraverso le vicende spesso dolorose che segnano la loro infanzia, l'adolescenza e l'età adulta. Dal romanzo è stata tratta la sceneggiatura per l’omonimo film.  La trama fa riflettere sul problema  dell’isolamento e della solitudine.

L’isolamento può essere volontario ed involontario.

L’isolamento volontario di solito è di breve durata. Serve per riflettere, decidere, far maturare la propria creatività, per necessità psicofisica, ma poi si torna fra gli altri, agli affetti, alle amicizie. In questo caso isolamento non significa solitudine.

L’isolamento volontario, lo stare in disparte, può anche dipendere dalla scelta del soggetto per non essere deriso, schernito (si pensi all’omofobia tra gli adolescenti), per non soffrire evita il più possibile i contatti sociali.   E’ un ritiro per l’incapacità o l’impossibilità di rapportarsi, di confrontarsi con l'altro che parla, che giudica. E’ una solitudine che deriva dalla percezione degli altri come ostili o indifferenti ed il soggetto si rifugia nella propria individualità.

Invece l’isolamento involontario se prolungato nel tempo è disperante, specie in occasione delle festività o particolari ricorrenze. Questo tipo di isolamento corrisponde alla solitudine sociale, che viene subìta, fa patire l’assenza di amicizie, soddisfacenti rapporti interpersonali.

Il cardinale Gianfranco Ravasi  nel suo “Breviario” che viene pubblicato sul domenicale de “Il Sole 24 Ore (30 giugno 2013) ha scritto: "Quand'ero giovane prete, studente a Roma, mi recavo a visitare gli infermi di una parrocchia di Torpignattara. C'era un anziano che mi accoglieva con gioia, mi preparava il caffé, mi tratteneva il più possibile. Quando dovetti salutarlo per l'ultima volta perché ritornavo a Milano, mi disse: 'Lei non sa cosa vuol dire non attendere più nessuno.' "  E' questo un esempio di drammatica solitudine sociale.

Ma per solitudine non s’intende soltanto chi è privo di compagnia. Si può soffrire di solitudine, "sentirsi solo",  indipendentemente dalle circostanze esterne. E’ solitudine di tipo psicologico e si manifesta con diverse modalità.   Si può soffrire di solitudine nell’ambito lavorativo, in famiglia o nel rapporto di coppia.

Se la comunicazione  tra coniugi diventa esigua, se si dialoga solo per parlare del menage quotidiano, l'intimità lascia il posto all'incomprensione, alla delusione.

La solitudine può anche scaturire dalla paura di amare, si teme l’abbandono e subentra la riluttanza a rischiare.

Doxa

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #9 il: Ottobre 30, 2013, 08:14:07 »
/3

Sigmund Freud: "C’è una storia dietro ogni persona. C’è una ragione per cui loro sono quel che sono. Loro non sono così solo perché lo vogliono. Qualcosa nel passato li ha resi tali e alcune volte è impossibile cambiarli."

La  solitudine esistenziale o psicologica consente di avere coscienza della propria personalità, mette l’anima di fronte a se stessa dice la  poetessa statunitense Emily Elizabeth Dickinson (1830 – 1886) nella sua poesia titolata “Solitudine”:

Ha una solitudine lo spazio

solitudine il mare

solitudine la morte, ma tutte queste

saranno moltitudine

a paragone di quel più profondo luogo

quella polare intimità

di un’anima di fronte a se stessa,

finita infinità.


La Dickinson si auto-infliggeva l’isolamento, come il nick Francesco, che in un forum di psicologia ha scritto di sentirsi solo e triste “perchè ho allontanato tutti, ho paura degli altri,  temo i rapporti interpersonali.”

Il nick Maria gli domanda: “Cosa ti spaventa di un rapporto interpersonale ?”

Francesco le dice “il bambino che c'è in me è ferito ed ho paura di farlo sapere agli altri, temo che  gli altri se ne approfittino; mi spaventa far vedere le mie debolezze.”

Maria gli risponde: “E' una situazione che comprendo.Ma non  tutte le persone approfitterebbero di quelle che definisci debolezze. Aprendoti agli altri potresti invece  incontrare chi le comprende e/o potrebbe darti un sollievo psicologico.
Farci vedere per ciò che siamo veramente è un rischio ma non si può rimanere sempre nel proprio   guscio sicuro, finisce per svuotarci l'anima.  Agli altri può sembrare una scelta l'isolamento, mentre invece  si desidera molto avere qualcuno con cui condividere parte di noi stessi.

Ma che cosa potrebbe accadere di così terribile se ci esponessimo? S’immaginano conseguenze catastrofiche, invece, a volte,  potremmo riceverne un beneficio. 
 
Purtroppo viviamo in una società in cui  è necessaria la prudenza nei rapporti interpersonali  e a volte si teme di raccontare i  propri problemi come se fossero qualcosa che ci sminuisce, che ci  fa dipendere dagli altri (che devono tenersi alla larga). E' difficile pertanto trovare qualcuno disposto all'ascolto, al dialogo, alla comprensione, soprattutto se si ha così paura di esporsi.

Di solito chi per vari motivi soffre di solitudine od è un solitario ha scarse possibilità di fare esperienze e si affeziona molto alla prima persona con la quale instaura un legame di amicizia.”

Chi è solo si sente inutile, invisibile.
« Ultima modifica: Ottobre 30, 2013, 08:16:46 da dottorstranamore »

Doxa

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #10 il: Novembre 04, 2013, 17:20:31 »
/4

La solitudine evoca l'abbandono, isolamento, esclusione, emarginazione, privazione degli altri, malinconia, sofferenza.

Però l'individuo può sceglierla per varie motivazioni, ad esempio come necessità in un un periodo della propria vita o bisogno di solipsismo.

Se una persona è introversa ed introspettiva tende alla “solitudine meditativa” ma non all’isolamento sociale: dialoga, interagisce, ma evita le amicizie vincolanti che inducono  comportamenti  forzati ed adattamenti reciproci per non deludere le aspettative altrui.

Essere capaci di star soli è un'arte, un'educazione all'autonomia: "Beata solitudo sola beatitudo", è un detto latino che significa "beata solitudine, unica beatitudine", attribuita a Bernardo da Chiaravalle.

Un altro punto di vista è quello di Salvatore Quasimodo nella sua poesia “Ed è subito sera”:

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Le considerazioni di Quasimodo sull’inevitabilità della solitudine  esistenziale o psicologica sembrano drammatiche: l’individuo è condannato all’infelicità  perché, per sua natura, non può sfuggire né alla solitudine  né al bisogno degli altri. E' una solitudine metafisica. 

Doxa

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« Risposta #11 il: Novembre 05, 2013, 17:54:55 »
/5

Un’indagine sulla solitudine effettuata da ricercatori dell'universita'di Haifa (Israele) ha evidenziato che la maggioranza dei sofferenti di solitudine cerca soluzioni "culturali": lettura di libri, attività artistiche o creative, cinema, teatro. Altri preferiscono forum, chat, social network. Altri ancora scelgono i centri commerciali o vanno allo stadio la domenica per sentirsi parte della folla, oppure praticano un’attività sportiva, fanno viaggi o prediligono la compagnia di un animale domestico.  Sono reazioni di contrasto per non pensare alla propria solitudine o all’isolamento.

Comprendere la propria condizione non è facile ed ognuno ha il suo modo di reagire alle diverse situazioni, come leggiamo in alcuni testi letterari di autori come Joyce, Kafka, Proust, T.S. Eliot.

Sulle nostre relazioni interpersonali abbiamo aspettative che vengono spesso deluse, e la delusione è tanto più cocente quanto più i rapporti sono amichevoli o affettuosi. Continuamente lanciamo segnali o messaggi che vengono ignorati o travisati: ci aspettiamo un consiglio e riceviamo un rimprovero, cerchiamo conforto e troviamo indifferenza, riveliamo una confidenza, sperando di ricevere complicità e condivisione, e ci ridicolizzano.

Scopriamo continuamente che la nostra immagine dell’altro/a, costruita sulla proiezione, sulla base delle nostre aspettative su come lui/lei dovrebbe essere, non combacia con i fatti. Se invece non inviamo messaggi e non facciamo richieste perché ci aspettiamo che l’altro/a spontaneamente si accorga delle nostre esigenze e vi corrisponda, allora aumentano le probabilità di delusione.

Rubin Gotesky nel suo libro titolato: “Aloneness, loneliness, isolation, solitude”, afferma che noi proviamo la solitudine se non riusciamo a condividere i nostri pensieri, le nostre verità, i nostri bisogni.

La solitudine può indurre all’isolamento, perché ci libera dalla tensione di offrire agli altri una nostra immagine socialmente adeguata. In assenza degli altri, si riduce la nostra attenzione su come appariamo, si evita il continuo automonitoraggio dei nostri gesti ed è più facile concentrare l’attenzione sui propri progetti, sulla creatività. Nelle biografie di filosofi, scienziati e artisti si legge spesso che le nuove idee o scoperte nascono in periodi di isolamento non costrittivo.

Tra i “solitari” per scelta  ci sono navigatori, eremiti, esploratori ai quali l’isolamento ha dato forme diverse di soddisfazione intellettuale. Si soddisfa il bisogno di mettersi alla prova, di farcela da soli, di dimostrare a se stessi ed agli altri, il proprio coraggio, la propria resistenza e la propria autonomia. 

Doxa

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #12 il: Novembre 06, 2013, 09:26:15 »
/6

Stare da soli e sentirsi soli.

Non c’è una relazione necessaria tra isolamento (essere soli) e senso di solitudine (sentirsi soli),  tra solitudine fisica e solitudine psicologica. Però tale relazione è possibile in determinate condizioni di isolamento.

I rimedi spontanei per contrastare la solitudine psicologica possono essere di tipo mentale o comportamentale.

Le strategie mentali permettono alla persona di agire sui propri pensieri, giudizi, ragionamenti, di cercare le cause e le soluzioni, di distogliere l’attenzione dal proprio malessere pensando ad altre cose, di esplorare mentalmente le modalità possibili per superare il proprio disagio e decidere la strategia comportamentale, che può essere di tipo sociale o non sociale.

Se si è insoddisfatti della quantità e qualità dei rapporti interpersonali si cerca d’intensificare i contatti e migliorare la qualità delle relazioni sociali. Se necessario, si tenta di migliorare il proprio aspetto fisico (andando in palestra, curando il look), oppure di rendersi più gradevoli, apprezzabili o amabili.

Le strategie non sociali consistono nel dedicarsi  da soli ad attività  creative o artistiche,  per distrarsi dai propri problemi o a scopo compensativo perché considerate piacevoli e gratificanti di per sé, come ad esempio un hobby.
 
Tra le strategie spontanee contro la solitudine c’è l’uso di Internet, perché consente molti contatti tramite forum, chat, social network. Diversamente dalla televisione è un medium interattivo che dà la possibilità di ampliare le proprie conoscenze prima virtuali e poi, eventualmente, reali.   

La psicologa sociale Maria Miceli nel suo  già citato libro “Sentirsi soli”  evidenzia che una delle caratteristiche della comunicazione tramite Internet è quella di mantenere l’anonimato, il quale può favorire identità fittizie, legami effimeri o immaginari, permette di raccontare bugie o rivelare verità che non si è mai avuto il coraggio di confidare a nessuno; può anche esporre al rischio di comunicare con individui senza scrupoli (maschi e femmine), oppure  di idealizzare l’interlocutore/trice, esponendo a cocenti delusioni.

Però l’anonimato può essere di aiuto per le persone afflitte da ansia sociale, dal timore del rifiuto da parte di altri, da chi teme di essere poco attraente, da chi è timido.

Le ricerche psicosociali più recenti fanno vacillare la convinzione che le relazioni on-line siano destinate a vita breve: sia le amicizie sia le relazioni sentimentali nate tramite Internet sono spesso durature come quelle nate  nella realtà.

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #13 il: Novembre 07, 2013, 10:05:58 »
Il tempo e l'eternità

Cos’è il tempo ? Comprenderlo significa capire il prima, l’adesso e il dopo.

Agostino d’Ippona nell' undicesimo libro delle “Confessioni” riflette sulla questione del tempo e dice:  "io so che cosa é il tempo , ma quando me lo chiedono non so spiegarlo".

Nel biblico libro della “Genesi” si narra che  Dio creò l’universo in giorni diversi con successione di eventi. Il fantasioso racconto fa domandare cosa  egli facesse prima della creazione e presuppone che anche Dio sia nel tempo, invece per  Augustinus Hipponensis  Dio é fuori dal tempo, é nell' eternità e non crea le cose nel tempo. Con la creazione delle cose Dio creò anche il tempo,  quindi non esiste  il tempo prima della creazione. Allora torno alla domanda iniziale: che cos’ é il tempo ? Parrebbe ovvio considerarlo la sommatoria  passato, presente e futuro, ma il passato non é più e il futuro non é ancora. E’ la nostra psiche che crea il concetto di tempo  per suddividere  il passato, il presente ed  il futuro, per dare un ordine temporale ai singoli fatti quotidiani che si susseguono, per rappresentare la ciclicità degli eventi astronomici: il succedersi del giorno e della notte, il ciclo delle stagioni.  ecc..

Se il concetto di tempo  potesse essere scisso nelle sue strutture elementari, come un bambino che  smonta un giocattolo, si vedrebbero scaturire il punto, la linea, lo scorrimento, la velocità, la divisibilità in parti uguali, la direzione, perché il  tempo viene immaginato come una retta infinita sulla quale a velocità costante  scorre un punto indivisibile ed inesteso,  che è il presente,  il quale separa in modo irreversibile il passato dal futuro, verso cui procede.

Se tutto  restasse uguale o se tutto mutasse senza alcun punto di riferimento costante, il tempo non ci sarebbe o non verrebbe percepito. L'unico tempo che riusciamo a percepire è il presente, l’attimo fuggente come parte dell’eterno, che è origine e destino, l’alfa e l’omega. Il tempo presente scorre veloce e diventa secondo l’antico filosofo Platone ’“immagine mobile dell’eternità”, considerata un concetto metafisico del tempo, reputato “e - terno”: vocabolo  che deriva dalla locuzione latina "ex" (fuori) e da "ternum" (terno) ovvero, "fuori dalla triade del tempo: passato, presente e futuro".

Il concetto di eternità può essere  messo in relazione con la temporalità cronologica, immaginando ad esempio l'eternità come la sequenza di intervalli di tempo in numero illimitato sia precedenti sia posteriori Non esistendo alcuno strumento in grado di misurare un tale intervallo privo di limiti, esso si configura come congettura pertinente alla metafisica.

Il filosofo tedesco  Martin Heidegger  nel suo noto saggio “Essere e tempo”  afferma che passato, presente ed avvenire costituiscono un fenomeno unitario che chiamiamo temporalità.

Doxa

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Re:Scienza e psicologia
« Risposta #14 il: Novembre 08, 2013, 10:40:18 »
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Nelle antiche filosofie pitagorica e stoica il tempo era concepito come ritmo del movimento cosmico, mentre per Platone era“immagine mobile dell’eternità” (Timeo, 37 d), gerarchicamente inferiore  all’eternità, “eterno presente immobile”.

Gli antichi Greci  avevano  tre parole per  indicare la temporalità:  kronos, kairos ed aion

Kronos
per  indicare il tempo quantitativo, sequenziale: passato presente e futuro, lo scorrere delle ore.
Per la mitologia greca il titano Kronos era figlio di Urano (Cielo) e Gea (Terra). Dagli antichi Romani Kronos era denominato Saturno e veniva raffigurato anziano, con la barba  bianca e lunga, mentre regge tra le mani una falce ed una clessidra;

kairos per denotare un tempo  indeterminato, un’azione da eseguire nel momento opportuno.
Per la  teologia kairos indica il tempo che è nel potere di Dio. Nell’antico testamento i vocaboli furono scelti con riferimento a kairòs e non a kronos proprio perché il tempo acquista il suo valore nell’incontro tra Dio e l’uomo.
Nella mitologia  Kairos è personificato da un giovane  nudo con le ali ai piedi , a volte anche agli omeri, con le braccia protese verso l’alto. Con la mano sinistra regge la staffa di una bilancia, in bilico sulla lama di un rasoio. Il volto è incorniciato da lunghe ciocche di capelli sulla fronte, ma la parte centrale della calotta cranica è rasata.

Aion (o Eone) simboleggia l’eternità, il tempo infinito. Nell’iconografia  è raffigurato come un uomo con la testa leonina, sorregge lo scettro, una chiave ed un fulmine. E’ avvolto da un serpente che intorno al suo corpo  compie 7 giri e mezzo, corrispondenti alle sfere celesti.
Il drammaturgo greco Euripide (485 a.C. – 407/406 a.C.) considera Aion figlio di Kronos.

Gli antichi Greci collegavano il Tempo anche alla memoria, mitologicamente personificata da Mnemosine (una delle Titanidi,  anche lei figlia di Uranoe di Gea), amata da Zeus, con il quale ebbe nove figlie, le Muse, protettrici delle arti, secondo quanto narra Esiodo nella sua “Teogonia”.