Autore Topic: Il buio non tornerà parte 2  (Letto 1516 volte)

Steven Joseph

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Il buio non tornerà parte 2
« il: Agosto 14, 2013, 11:03:18 »
Ryan è cieco dalla nascita, quando all'età di diciassette anni, il suo amico Raph gli consiglia di sottoporsi ad un intervento che, se riuscito, gli avrebbe permesso di vedere il mondo, cosa che prima non aveva mai avuto possibilità di fare. Dopo l'intervento Ryan si sveglia e, dopo aver avuto i primi contatti con questa nuova realtà, si decide ad uscire dalla sala operatoria, pronto a "conoscere" la sua famiglia...


Passai qualche altro minuto a guardarmi intorno, cercando di catturare quante più informazioni riuscissi. Vedevo che Raph mi ammirava, contento che fossi uscito da quel tunnel buio e spaventoso che per lui la cecità doveva essere. Mi ha sempre considerato come un invalido, qualcuno che doveva per forza essere aiutato. Io rifiutavo sempre i suoi aiuti, non per superbia, ma perché non volevo si disturbasse per me. Non ce n’era alcun bisogno. Nonostante questo, però, il mio amico si è sempre comportato lealmente con me, imponendomi il suo aiuto e io, scocciato, gli ubbidivo.
Appoggiai le gambe in terra, una per volta, e mi sollevai dal lettino. Raph corse subito a pormi il braccio e io mi appoggiai a lui. Questo gesto mi fece rendere conto di quanto sarebbe stato difficile muoversi in quel mondo a me sconosciuto. Chiesi, così, a Raph il mio bastone e presi a tastare il mondo con esso, così come fino ad allora avevo fatto. Battei sul fianco di un mobiletto di forma cubica (avevo imparato a riconoscere le forme della geometria solida da piccolo, quando mia mamma mi comprò uno di quei giochi con le formine da inserire nelle fessure con la loro forma. Io toccavo la forma della fessura e, con un ingegno degno forse dei bambini molto più grandi di me, riuscivo sempre a inserire tutte le figure). Mi meravigliai di come ad una sensazione tattile ne corrispondesse una visiva, che coincideva perfettamente con la prima. Mi avvicinai al mobiletto e lo toccai con l’indice. Da questo primo contatto fisico capii che era veramente un cubo. Prima non ne ero sicurissimo ma ora sì. Appoggiai il pollice e poi tutta la mano. Accarezzai quella superficie e, mentre vedevo la mia mano scorrere su di essa, un brivido mi percosse. Stavo osservando il movimento della mia mano e ne fui estasiato. Portai la mano davanti agli occhi e presi a fissarla. Era prevalentemente grazie a lei che conoscevo la realtà. Il senso del tatto veniva espresso per lo più dalla mano ed era questa che mi aveva fatto da occhio per tutto il tempo in cui rimasi nel buio. 
I dottori presero a fissarmi e a parlottare tra di loro. Mi resi conto solo allora che mi stessero guardando, ma probabilmente era già da tempo che i loro sguardi compiaciuti mi contemplavano e mostravano un orgoglio immenso nell’essere riusciti nell’impresa. Portavano una mascherina e questo mi impedì di vedere la loro bocca. Probabilmente sorridevano, ma non potei esserne certo.
Dovevo ancora abituarmi alla profondità, alle distanze e alle proporzioni. Non riuscivo a camminare benissimo. Affidavo i miei passi al mio caro bastone e, quindi, alla sensazione uditiva che scaturiva dal colpo che davo agli oggetti o forse ad una sorta di sesto ( o per me sarebbe meglio dire quinto) senso che mi permetteva di avvertire gli oggetti intorno a me. Raph mi sostenne mentre muovevo i miei primi passi in questa nuova realtà e mi preparavo ad un cambiamento permanente della mia vita.
- Per i primi tempi sarà meglio che tu ti muova come hai sempre fatto. Ti consiglio di usare il bastone per prendere confidenza con le sensazioni visive. Ti devi abituare ad avvertire la profondità degli oggetti, a calcolare le distanze tra loro e a muoverti facendo affidamento solamente sulla vista.- fece Raph senza guardarmi, ma osservando lo spazio intorno a sé, come volesse indicarmi la via più semplice per farlo. Devo ammetterlo: è molto difficile trovare amici fedeli e gentili come Raph. Da sempre mi è stato accanto. Nonostante io fossi indifferente alla mia deficienza e non le dessi più di tanta importanza, lui si metteva a piangere spesso per la mia condizione. Mi diceva che al mio posto lui sarebbe impazzito e che niente sarebbe riuscito a consolarlo. Cercava sempre di evitare argomenti che io non potessi comprendere a causa della mia incapacità di vedere. Si concentrava invece su argomenti inerenti la musica o la gastronomia ( tra le altre cose lui era anche un eccellente cuoco e mi deliziava spesso con le sue leccornie). Ah, se al mondo le persone come Raph fossero milioni! Ad ogni modo, io lo adoravo. Non perdeva mai occasione per dirmi quanto fossi coraggioso e quanto invidiasse il mio sangue freddo (stiamo parlando, ovviamente, di un inguaribile fifone che all’età di dieci anni aveva ancora paura di dormire con la luce spenta. Sì, aveva paura del buio). A questo proposito ricordo che un giorno mi chiese: “Come facevi da bambino a non aver paura del buio che avevi sempre davanti agli occhi?” e io gli risposi sinceramente: “Se non hai mai visto la luce, non puoi aver paura del buio.”
                                                                    ●●●
Uscii dalla sala dove mi ero risvegliato e attraversai un lungo corridoio dello stesso pallido colore dei camici dei dottori. Questi stavano dietro di me ci stavano seguendo, probabilmente per incontrare la mia famiglia. Io e Raph procedevano a braccetto mentre il mio bastone mi precedeva ad ogni passo. Il corridoio presentava una svolta e noi dovemmo assecondarlo. Prima, però, volli dare un’ultima occhiata all’indietro. Volli guardare per l’ultima volta quella sala d’ospedale dove avevo lasciato la mia cecità. Lì l’avevo abbandonata e per sempre vi sarebbe rimasta. Lontana dai miei occhi. Lontana da me.
In lontananza vidi delle persone. Man mano che mi avvicinavo esse diventavano sempre più grandi e non mi riuscii a spiegare subito questo fenomeno. Non ci feci poi così tanto caso e continuai ad avanzare. Scorsi tre figure. Una, molto alta, stava di fronte ad altre due che però erano di molto inferiori alla sua statura. Notai che queste avevano le gambe poste in un modo diverso rispetto alla figura più alta. Esse erano adagiate su delle costruzioni che avevo visto anche nella sala dove mi ero risvegliato. Queste erano ricurve e presentavano dei prolungamenti grazie ai quali erano ancorate a terra. Fui troppo incuriosito da quelle strutture che riuscivano a rendere delle figure più basse di quanto non fossero. Le figure che vi erano appoggiate, adattavano la forma del proprio corpo a quella di quell’ignoto strumento. Le gambe erano posizionate in corrispondenza dei prolungamenti e anch’esse toccavano terra. Ero troppo curioso. Con mia grande sorpresa osservai che una di quelle apparecchiature era proprio accanto a me e non c’era nessuno sopra. Decisi di toccarla. La mente mi si illuminò avevo intuito cosa fosse ma volevo esserne sicuro. Mi sedetti e capii che era una sedia. Cavolo! Non potevo credere ai miei occhi. Le persone che erano più basse dovevano essere sedute e quella più alta era in piedi. Ero fuori di me dalla gioia. Ogni scoperta era grandiosa per me. Ogni informazione di quel nuovo mondo mi rendeva più felice. Un dubbio, però, mi balenò per un istante nella mente. Una paura mi assalì. Ero terrorizzato che questo marasma di informazioni percepite tutte in una volta mi facesse del male. Poteva davvero essere pericoloso. Questa fitta nebbia di incertezze si diradò quando mi resi conto che quelle tre figure non potevano che essere la mia famiglia. Quei tre matti che mi sopportavano ogni giorno e che non si stancavano mai di me!
- Mamma! Papà! – urlai fuori di me dalla gioia.
Le due figure sedute si alzarono di scatto e presero a fissarmi. Alzandosi, raggiunsero e superarono l’altezza dell’altra figura. Immediatamente diventarono più grandi e questo mi fece capire che si stavano avvicinando. Vidi le loro gambe muoversi in modo alternato. Andai loro incontro e confrontai il movimento dei loro arti inferiori con quello dei miei e notai che era identico. Quelle persone stavano camminando incontro a me.
- Ryan- sentii urlare. Era la voce di mia madre. Era veramente lei.
Andai incontro a loro e decisi di accelerare il passo. Decisi così di fare una cosa di cui prima avevo solo sentito parlare e che mai avevo azzardato. Correre. Pensavo che mi sarebbe risultato difficile dato che prima di allora non mi ero mai neanche sognato di farlo (Provate voi a correre tenendo gli occhi chiusi! Per quanto possiate conoscere bene il posto in cui vi trovate, non riuscirete mai ad evitare di centrare in pieno un qualsiasi ostacolo che vi si trovi davanti). Diversamente da come le mie aspettative mi preludevano, appurai che era davvero facile accelerare il passo e mettersi a correre. D’un tratto però il mio cuore fu invaso da una paura mai provata prima e che mai vorrei vi capitasse nella vita. D’improvviso il mondo prese ad inclinarsi. Le percezioni che avevo della realtà presero a distorcersi. Tutto aveva mutato le sue proporzioni e le forme si erano allungate. Tutto stava cambiando. L’immagine più terrificante che mi si presentò in quel momento fu il pavimento. All’improvviso esso incominciò a diventare sempre più grande e quindi sempre più vicino. Con una velocità inaudita esso mi venne incontro e ne fui terrorizzato. Cacciai un urlo involontariamente e questo sollecitò mia madre ad invocare il mio nome nuovamente, questa volta, però, con una nota di apprensione ben distinguibile nella sua voce. Sentii che stavo spostando dell’aria intorno a me e avvertii il suo soffio sulla pelle. D’istinto imposi le mani e queste frenarono il pavimento, che altrimenti avrebbe continuato la sua avanzata fino a raggiungere il mio viso. Mi ci volle qualche secondo prima di realizzare quanto era successo. Ero caduto. Certo, mi era capitato altre volte in passato, ma questa volta non me ne accorsi. Ero così attratto e spaventato dal cambiamento che repentinamente stava subendo la realtà intorno a me, che non posi la mia attenzione sulle altre percezioni sensoriali che in quel momento mi avvertivano di quello che stava accadendo. Se non avessi prestato attenzione a ciò che i miei occhi vedevano, avrei sicuramente capito immediatamente cosa stesse succedendo. Così, dubbi su dubbi si accavallarono nella mia mente: avevo davvero fatto bene ad entrare in una nuova realtà così all’improvviso? Forse no, ma ero fiducioso che con il tempo avrei imparato. Ero rinato e, come un neonato impara a camminare a gattonare e a relazionarsi con la realtà, così avrei fatto io. Avrei imparato di nuovo a vivere.
Quelle tre figure che avevo capito essere la mia famiglia, mi corsero incontro (Loro sì che ci riuscivano!). La prima che mi aiutò a rialzarmi fu mia madre, che per la prima volta riuscii a guardare in viso. La sua voce era sempre stata per me una specie di coperta termica nella quale avvolgermi quando fuori, nell’inverno della vita, faceva freddo. La prima donna che entrò nella mia vita al buio fu anche la prima che entrò nella mia vita alla luce e questo mi sembrò naturale. Era mia madre e le madri, si sa, sono sempre le prime a venirti incontro. Le prime che ti raccolgono dal buio della pancia e anche dal buio della cecità.