Autore Topic: Il Numero 18  (Letto 1208 volte)

Steven Joseph

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Il Numero 18
« il: Luglio 31, 2013, 21:55:03 »
- Come vi siete conosciuti tu e papà? Non credo tu me l’abbia mai raccontato.- E in realtà era vero. Io non l’avevo mai saputo.
Mia madre si fermò. Me ne accorsi perché di colpo era cessato quell’insistente strofinare sulla teglia che la stava tenendo impegnata in quel momento. Il silenzio. Poi riprese a strofinare più forte di prima.
- Tuo padre è sempre stato un uomo eccezionale. Intelligente, romantico e affascinante. Tutto ciò che una donna ha sempre sognato. Ci incontrammo in treno e fu il destino a volerlo. Era il 1990. Mia sorella Mary mi aveva trovato un posto come segretaria in uno studio legale a Philadelphia e io mi ci stavo recando tutta contenta. Tua zia avrebbe scomodato persino Dio pur di farmi ottenere quel posto. Diceva che lì avrei sicuramente trovato qualche buona “vacca da latte” (che era l’espressione più elegante con cui la zia si riferiva agli uomini), inoltre detestava vedermi a casa a sprofondare nel divano con le mani inzuppate nel gelato al cioccolato come le vecchie zitelle inacidite (tutte parole uscite dalla sua bocca!). E poi diciamocelo chiaro, mia sorella Mary non avrebbe mai perso l’occasione di farmi diventare sua debitrice e di dimostrare quanto ci sapeva fare nel suo lavoro. La conosci, no? –
Io annuii. Conoscevo benissimo la zia Mary. Mio padre non perde occasione per stuzzicarla e ridere sulle sue disgrazie. Ovviamente lo faceva per scherzare e lei stava al gioco. La zia Marylin, o come la chiama papà Bloody Mary, non è mai andata d’accordo con il genere maschile. Troppe storie finite con lanci di vestiti dalla finestra o con parole poco cortesi urlate a squarciagola l’avevano provata particolarmente e lei si era rifiutata di legarsi stabilmente a qualcuno. Si limitava a piccole storie occasionali che finivano per avere sempre lo stesso triste epilogo. Tutto sommato però zia Mary era un mito per me e Rachel. L’abbiamo sempre considerata un modello , soprattutto Rachel. Mia madre era molto molto contraria a questo ma quando zia Mary sentiva che sua sorella allontanava la sua nipotina preferita dall’essere come lei, andava fuori di matto, tanto che una volta l’ha persino portata via di casa contro la volontà di mia madre.
-  Io ero diretta a Philadelphia per raggiungere questo posto di lavoro sicuro ma lontano. Salii sul treno e mi diressi al mio posto: il 13B, terza carrozza. Per una qualche inconscia pulsione, o semplicemente perché Dio lo voleva, sbagliai scompartimento ed entrai nei sei posti che portavano il numero 18. Appena varcai la soglia, sicurissima di trovarmi nel posto giusto, incrociai il suo sguardo. Quei suoi occhi così brillanti, così perfetti mi illuminarono di un nuovo sole e non riuscii a staccargli i miei di dosso. Lui mi svegliò da questo mio trance improvviso e inaspettato schiarendosi la voce.  “Non si siede?” mi disse. Io ero rimasta paralizzata da quanto quegli occhi mi rapissero ogni istante di più. “Certo!” feci io imbarazzata e confusa. “Il mio posto è il 13 B”. Diedi un occhiata ai numeri neri stampati sul portabagagli sopra i posti a sedere e subito mi bloccai. “Non è questo il mio posto. Ho sbagliato scompartimento.” Papà annuì. “Se vuole può restare qui.” Mi disse. Io, allora timidissima e impacciata, rifiutai cortesemente e corsi fuori in cerca del mio posto. In quell’istante avrei potuto sentire la vocina isterica di Mary che, infervorata come una iena, mi rimproverava per l’occasione persa a causa della mia poca esperienza nel campo (cosa che Mary avrebbe potuto vendere a palate ). “Non lasciartelo scappare!” sentivo nelle orecchie, poi, da brava ragazzina casa e chiesa, scuotevo la testa, imbarazzata per aver anche solo pensato ad una cosa simile. Mi diressi nell’alloggiamento numero 13 e notai con mio grande stupore che quasi tutti i posti erano occupati. Cercai il 13B e mi accorsi che un uomo vi era stravaccato. Era una specie di omuncolo insignificante. Uno di quelli che si sentono di poter conquistare il mondo solo perché hanno un coltellino in mano e tu no. Aveva un berretto verde marcio con la visiera rivolta all’indietro. Un paio di braghe sgualcite ed una maglia da pallacanestro che pareva gli arrivasse alle ginocchia. Era il solito tipetto che si incontra in giro nei vicoli bui e stretti di notte. Di quelli che spacciano e rubano. Probabilmente era salito sul treno senza biglietto e una volta che il controllore lo avesse visto, sarebbe stato sbattuto giù dal treno a calci. Questo bel tipetto stava occupando il mio posto, il 13B. I piedi erano stravaccati sul posto accanto, il 13D. Chiesi cortesemente di spostarsi ma lui mi rispose sgarbatamente che non voleva essere disturbato (credo tu abbia intuito l’espressione che usò). Gli altri posti erano tutti occupati da elegantoni e gente incravattata che non scomodò neanche un capello per aiutare una giovane donna in difficoltà. Preferivano affondare i loro occhietti piccoli e infossati sul giornale di finanza che tenevano in mano piuttosto che mettersi contro quel tipetto così poco raccomandabile. Notai che un solo posto era libero: quello di fronte al ragazzo, il 13A. Chiesi se potevo sedermi e lui prese la sua borsa da terra, la scagliò sul posto a sedere e mi disse che era occupato. Uscii amareggiata dalla cabina e appoggiai la testa al finestrino del corridoio. A quei tempi ero una ragazza così fragile che di fronte ad un insulto o ad un tono di voce più alto del solito sarei stata incapace di qualsiasi reazione. La fronte mi si congelò al contatto con il vetro. Non era umido, solo freddo. A bagnarlo ci pensai io. Iniziai a piangere e a ripensare a come quel delinquente mi aveva trattata e a come io, seppure dalla parte del giusto, non fossi riuscita a pensare a niente che avrebbe potuto  in qualche modo tirarmi fuori da quella situazione. Solo il buio in quel momento. Le mie lacrime scorsero sul vetro, quasi come se piovesse. Non pioveva fuori dal treno, ma dentro di me. Un tremendo temporale si scagliava contro la mia povera e fragile animella innocente. Contro una povera ragazza vulnerabile agli attacchi della vita, così come a quelli di arroganti e animaleschi personaggi che credono che il mondo debba essere conquistato prendendolo a calci.
In mezzo a quel temporale, però, una luce si stagliò nel mio cielo. Un arcobaleno di colori raggianti e tinte uniche balenò in me. Quell’oasi era tuo padre. Mi ritornarono in mente il suo sorriso e la sua cortesia. Mi ritornò in mente il modo in cui mi aveva parlato, quella sua voce calda e rassicurante e quegli occhi, quei favolosi occhi verdi. Il mio sguardo si perse nel suo e fu subito il sereno. Decisi di correre da lui e sperai che i posti non fossero già occupati. Era incredibile che una come me avesse avuto il coraggio di affrontare un uomo a quattr’occhi, eppure stava succedendo. Forse era stato il destino a volerlo, oppure Dio, oppure era stata proprio Mary, che aveva sperato in questo dal giorno in cui ero nata.  Aprii la porta dello scompartimento e vidi che lui era seduto proprio dove l’avevo lasciato. Nello scompartimento non c’era nessun altro. Il ragazzo alzò gli occhi dal libro che stava leggendo e si illuminò in un sorriso. “Posso sedermi?” feci io imbarazzata. “Certo, accomodati. Che fine ha fatto il 13B?” mi misi quindi a raccontargli tutto e lui mi rassicurò. “Il mondo è pieno di gente come lui.” Lui mi guardò e indicò il finestrino picchiettandovi con il dito. “Secondo me, tra meno di un’ora vedremo il tuo amichetto scendere scortato dal controllore. Probabilmente è senza biglietto e per quanto possa fare il bullo, la legge va rispettata, sempre.” Da lì ci presentammo e iniziammo a parlare e parlare di noi, dei nostri hobby e di tutto ciò che ci serviva sapere per conoscerci meglio. Dopo quello che a me sembrò poco più di un quarto d’ora, lui picchiettò nuovamente sul finestrino. “Ecco fatto.” Fece poi “Cinquantadue minuti.” Diedi un occhiata al di fuori e vidi che il giovanotto presuntuoso era stato sbattuto fuori dal treno perché sprovvisto di biglietto. Un sorrisetto mi scappò inevitabilmente e lui se ne accorse. “Se vuoi puoi ritornare al tuo posto.” Mi disse. “Ma io non voglio!” dissi a bassissima voce, quasi vergognandomene. “Come vuoi.” Lui mi sorrise e continuammo il viaggio.
Una frase in particolare mi restò impressa di quel giorno e fu quella frase che mi fece innamorare della sua intelligenza e della sua sensibilità senza limiti. Lui mi disse : “A me piace molto guardare il paesaggio dal finestrino mentre viaggio, sai? Adoro osservare il mondo mentre scivola via alla velocità della luce. Sai, se guardo nella direzione opposta a quella nella quale sta andando il treno io vedo il mondo scappare via, se invece guardo verso la nostra meta, vedo che il mondo mi viene incontro, quasi volesse abbracciarmi.” Probabilmente aveva letto quella frase su qualche rivista da quattro soldi e l’aveva riproposta spacciandola per sua ma non mi importava. Proprio il fatto che lui l’avesse scelta per conquistare una ragazza era da ammirare. Mi disse che si stava dirigendo a New York. Aveva una coppia di amici che l’avrebbero ospitato a patto che lui avrebbe pagato parte dell’affitto. I piani per il suo futuro più prossimo erano di trovare una lavoretto che gli permettesse di campare e nello stesso tempo cercare di pubblicare il suo romanzo o al limite lavorarci sopra un altro po’. Il treno si fermò. Dopo quella fermata ce ne sarebbe stata solo un’altra prima di Philadelphia. Il volto di Robby cambiò espressione. Si era fatto più serio, quasi stesse per fare una cosa di cui avrebbe potuto pentirsi, E infatti fu così. Mi guardò negli occhi e mi prese la mano tra le sue e la strinse come un wurstel tra le due fette di pane di un hot dog. “Vuoi fare una pazzia?” mi disse. Io non capii e lui non perse tempo. Me lo disse subito. “Vieni con me a New York, ti va?” Rimasi spiazzata e lui se ne accorse. “Pensaci. Potremmo iniziare una nuova vita insieme. Io e te. Nessun altro. So che è una decisione difficile a prendere così su due piedi ma non te lo chiederei se non avessi visto in te quel qualcosa di speciale. La stessa luce che brilla nelle stelle del firmamento mi è apparsa nei tuoi occhi quando ti ho vista per la prima volta. Ho scorto in te ciò che cercavo da tempo e ti prometto, anzi solennemente ti giuro” poi si inginocchiò e mi prese l’altra mano. “Che mai cercherò altro perché la mia ricerca finisce con te. Ti ho riconosciuta subito dal tuo sguardo, dal modo in cui mi parli e dal tuo tenero viso. Tu sei colei che per tutta una vita mi ha consolato. Eri la speranza e ora sei realtà. Sei la risposta alle mie preghiere. Sei sostanza, non più sogno.” Ascoltando quelle parole persino il ragazzotto maleducato di prima si sarebbe sciolto il lacrime e così feci io. Non seppi che dire, che pensare, che fare. Un ragazzo così non sarei mai più riuscito a trovarlo. Seguirlo, però, avrebbe voluto dire mandare a monte tutto ciò che la zia Mary aveva costruito per me. Non solo avrei perso un’opportunità io, ma avrei messo nei guai anche lei. D’altronde però quel ragazzo era stato mandato da Dio perché desse una scossa alla mia vita, perché la migliorasse. Non potevo rifiutare una promozione dal Grande Capo e Robby era proprio la promozione che stavo aspettando. Pensai alla faccia che avrebbe fatto Mary quando gliel’avrei detto. In quel momento non sarei riuscita a dire se sarebbe stata più felice per il principe azzurro che avevo trovato o più furiosa per il lavoro che avevo perso. Ero combattuta e non sapevo come comportarmi. L’amore o la carriera? Bella domanda! Mary aveva scelto la carriera e adesso il suo record è stata una storia di undici mesi conclusasi perché Mary credette di essere incinta e il suo fidanzato scappò a gambe levate. Io però avrei voluto essere l’eccezione. Avrei veramente voluto seguire quel ragazzo e fare una pazzia per amore. La prima della mia vita. Se poi non avrebbe funzionato mi sarei ritrovata New York da sola e senza un posto dove stare. Certo non era una bella prospettiva ma sapevo che non mi sarei affatto pentita di quella pazzia e l’avrei presa come un’esperienza costruttiva. Di quelle che fanno crescere e ti fanno capire che a volte il cuore sbaglia. Ma non questa volta. Robert non era come tutti gli altri. Sentivo che tra noi c’era qualcosa di veramente speciale e lui avrebbe fatto di tutto pur di non tradirmi. Ne ero sicura. Io penavo e confabulavo dentro di me ma mi ero completamente dimenticata che Robert stava ancora aspettando una risposta. “Ma… ma io non ti conosco.” Feci imbarazzata. Lui a quel punto (non potrò mai scordare quel momento) mi baciò. Fu il mio primo bacio e fu intenso, pieno di sentimento. Una cosa da romanzo, come tutta questa storia, non credi? Quando le nostre labbra si toccarono persi la cognizione del tempo e per me potevano essere passati un’ora come dieci minuti.
Lui si allontanò e sentii che per la prima volta mi ero sentita viva, incredibilmente viva.
“Adesso mi conosci?” fece lui. “Ti conosco da una vita. Tu sei il principe azzurro che ho sempre sognato. Verrò con te. Al diavolo Mary, al diavolo Philadelphia. Io ti seguirò anche in capo al mondo.” “Non ce n’è bisogno. Andremo solo fino a New York.” Ridemmo tutti e due e il viaggio continuò.
Finalmente arrivammo a Philadelphia. Era il momento della verità. Solo allora avrei capito se la me timida e passiva aveva o no lasciato definitivamente il posto alla me combattiva e folle. La follia l’avrei fatta se non fosse stato per un impulso che mi costringeva ad alzarmi. Paura, mi dissi, ma non ne ero sicura.
Si sentì in tutto il treno la voce leggermente meccanica del capotreno che avvisava dell’arrivo a Philadelphia. Eccoci giunti di fronte al dilemma per la seconda volta: Amore o Carriera?
“Allora? Cosa fai?” la mia faccia si tramutò da allegra donzella innamorata a succube lavoratrice senza amore. Mi scusai moltissimo con Robert per averlo deluso, anzi illuso. Sapevo che stavo commettendo il più grande errore della mia vita. Dal finestrino scorsi mia sorella che mi aspettava al binario. Non dissi una parola e mi misi in cammino. La paura e la timidezza avevano sovrastato ancora una volta quel briciolo di follia che da sempre avevo represso in fondo alla mia persona senza mai curarmene minimamente. –
- Un momento! Tu sei scesa da quel treno? Mamma! Era l’occasione della tua vita come potevi pensare che il lavoro sarebbe stato più importante? –
- Tranquillo Ryan. Io non scesi da quel treno. Appena arrivai sulla porta vidi mia sorella di fronte a me che mi incitava a fare presto. “Dai, muoviti. Siamo già in un mostruoso ritardo per il colloquio. Questo coso è arrivato in ritardo!” Ero lì lì per rassegnarmi all’inizio una vita mediocre in compagnia di quella malata di mia sorella, quando mi balenò in mente il volto del mio bel Robert e in contemporanea mi ricordai le magiche parole con cui mi aveva stregata. Niente mi avrebbe più fermata. Tornai indietro tra le urla di mia sorella che, stupita mi urlava di tornare indietro. Diceva che eravamo in ritardo per il colloquio e che mi avrebbe riempito di botte non appena fossi scesa. Ma io dopo pochi secondi non la sentii più. Tutto aveva perso significato per me. Solo una cosa era importante per me. Rivedere ancora e per sempre il suo sorriso. Mi precipitai al numero 18 e lo vidi nuovamente. Alzò gli occhi dal suo libro e mi sorrise. Si alzò e io lo baciai. Quel giorno la follia aveva prevalso sul buon senso e come vedi Robert, Rachel tu ed io percepiamo ogni giorno quanto questa scelta si stata la migliore che avessi mai potuto prendere. –

presenza

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Re:Il Numero 18
« Risposta #1 il: Luglio 31, 2013, 23:38:52 »
E' un racconto leggero e di buoni sentimenti, tuttavia ho potuto notare alcuni aspetti che andrebbero rivisti. Innanzitutto spiegazioni ulteriori di ciò che si capisce perfettamente risultano solo ripetizioni superflue, a tal proposito ci sono anche molte parole che si ripetono e appesantiscono il testo. Infine ciò che ritengo grave sono i "se" con il condizionale, quando nella normale regola grammaticale il "se" vuole solo il congiuntivo.

Steven Joseph

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Re:Il Numero 18
« Risposta #2 il: Luglio 31, 2013, 23:54:25 »
Grazie per le correzioni. Nel complesso, però, vi è piaciuto? :)
 

nihil

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Re:Il Numero 18
« Risposta #3 il: Agosto 02, 2013, 15:08:03 »
Racconto delicato e sincero nei contenuti.  In realtà non credo che una madre avrebbe raccontato così il suo incontro, in modo così letterario, ma fa bene al cuore crederlo. ;)

Steven Joseph

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Re:Il Numero 18
« Risposta #4 il: Agosto 07, 2013, 16:41:44 »
In realtà la madre non stava parlando con il figlio ma con se stessa. Stava rievocando uno degli episodi più belli della sua vita. Come un romanzo lei immagina, racconta e si emoziona.