Il sole era alto nel cielo e la sua presenza si avvertiva in ogni angolo del deserto. Il caldo era insopportabile anche ai piedi delle grandi alture dove i quattro cercavano refrigerio, avvolti dall’ombra che le montagne proiettavano sulla sabbia e che, nonostante la loro imponenza, servivano a poco contro quel calore così soffocante. Davanti a loro nient’altro che il nulla. Il cielo e la sabbia sembravano unirsi in uno sbiadito orizzonte di cui a stento si riuscivano a distinguere i contorni.
Nessuno aveva mai osato tanto. Non un solo uomo aveva tentato l’attraversata di quel deserto. La paura era troppa, così come erano troppe le leggende che circondavano quel luogo morto. Si vociferava che fosse la dimora di un mostro dalle mille teste o che al di là del deserto vi fosse il nulla, i limiti della Terra oltre i quali l’uomo non poteva avventurarsi.
Forse era così, ma i quattro avventurieri, armati di curiosità e di coraggio, dovevano sopravvivere per poter confermare queste ipotesi o smentirle completamente.
Restava però un interrogativo: ce l’avrebbero fatta o avrebbero perito, ricordati per sempre come avventurieri morti alla ricerca della conoscenza?
Breeve, l’intrepido e solitario cavaliere, lanciò uno sguardo davanti a sé. Non vide che sabbia, ovunque voltasse lo sguardo. Ovunque. Aveva le spalle appoggiate alla lastra pietrosa sotto alla quale stavano sostando e le gambe ben distese. Era stanco, come tutti ma non lo dava a vedere. Non poteva mostrarsi debole di fronte a loro. Era stato assoldato perché i due studiosi non sapevano badare a loro stessi e poi, quella donna. Non poteva di certo mostrarsi inferiore a lei. Questo avrebbe significato un disonore per lui e un guerriero audace e spavaldo come lui non se lo sarebbe mai perdonato.
Titira prese tra le mani un mucchio di sabbia. Osservò mentre le scivolava dalle dita e mentre lentamente il suo palmo si svuotava.
“Manca molto, secondo voi?” chiese poi interrompendo quel momento di pausa e di riflessione che i quattro stavano assaporando.
“E’ un deserto! E’ già tanto se possiamo considerarci ad un quarto del nostro viaggio.” Rispose Simon scuotendo la testa.
Titira abbassò lo sguardo e pensò. Cosa sarebbe successo se fosse rimasta a Brecknor, se non avesse seguito questi due studiosi nella loro spedizione verso l’ignoto. Forse, avrebbe incontrato l’amore, forse si sarebbe sposata e avrebbe ritrovato la felicità perduta di un tempo. Forse. Oppure avrebbe continuato a vivere nella tristezza e nella povertà, senza famiglia e senza identità, come un’armatura vuota, senza nome.
I quattro si alzarono quasi all’unisono e ripresero il viaggio.
Passarono le ore e i quattro avanzavano sfiniti, privi di energie ma con un’ unica forza motrice, la volontà. Julia aveva la tentazione sempre maggiore di abbeverarsi da una delle moltissime borracce nel suo zaino, ma cercò di resistere. Non poteva arrendersi adesso, nessuno di loro poteva.
La fatica, si sa, porta sempre a dei risultati coloro che sanno resisterle. La ragazza se lo ripeteva ogni minuto e questo le giovò molto.
In preda alla disperazione e con pochissime risorse nutritive i nostri poveri avventurieri erano con il cuore infranto. Avevano percorso quel deserto, avevano patito le pene dell’inferno e sopportato di tutto pur di arrivare in fondo, ma, invece, erano destinati a perire. La loro avventura era agli sgoccioli, così come le loro vite.
D’un tratto Simon si chinò ed analizzò il terreno. Aveva notato nella sabbia una macchiolina di colore verde. Si avvicinò e appurò che era erba. Sottilissimi fili d’erba sbucavano in quella circoscritta zolla di terra. Era una macchia piccola e uniforme ma era un segno visibile di vita in quel deserto. Un barlume fioco si aprì sul loro futuro, una via d’uscita per scampare a quell’inferno.
Gli altri tre lo accerchiarono e Julia si lasciò scappare una lacrima.
Il gruppetto avanzò e scoprì che, procedendo, le macchioline crescevano sempre di più, fino a diventare chiazze di un verde acceso e naturale.
Man mano che avanzavano, la sabbia tendeva a diventare sempre meno e a lasciare il posto ad un verdissimo prato, nel quale si intravidero anche delle margherite. I quattro si misero a correre fuori di sé dalla gioia e videro davanti a loro un lussureggiante bosco. L’incubo era finito. Quella strana natura in cui si erano imbattuti li aveva salvati.
Entrarono nel bosco e si guardarono attorno estasiati. Nessun bosco avrebbe mai potuto eguagliarlo in ricchezza e varietà di piante, in armonia e profumi. La pace che quel bosco infondeva era difficile a trovarsi. Un tripudio di bellezza e cromatismo si presentava di fronte ai loro occhi e una divina purezza era ovunque nell’aria.
Da dietro un arbusto sbucò un imponente cervo che stava brucando nell’erba. Aveva un manto che gli avrebbe permesso di mimetizzarsi perfettamente tra la corteccia degli alberi. Non fosse stato per le imponenti corna, simili a tronchi di betulla che si innalzavano fiere sul suo capo.
Julia lo fissò attraverso le lenti dei suoi occhiali e cercò di infondergli fiducia. Era una ragazza che ne aveva la capacità. Ognuno si fidava di lei e, a vederla, chiunque avrebbe trovato in lei una persona buona e sensibile.
Il cervo la scrutò dalla testa ai piedi, studiandone ogni particolare. Julia gli si avvicinò e il cervo si protrasse verso di lei con curiosità. Sembrava che non avesse mai avuto contatti con l’uomo. Il cervo portò indietro la testa. La ragazza gli si stava avvicinando e l’animale ne sembrava impaurito. Ad ogni passo in avanti di lei, una sua zampa si portava indietro. La donna si bloccò, capendo che l’animale la temeva. Non aveva mai visto una reazione simile in un animale. In molti avevano paura dell’uomo ma questo era diverso. Era intimorito, come se avesse davanti qualcosa che non aveva mai avuto occasione di vedere prima, qualcosa di nuovo e, perciò, fonte di paura.
L’animale si armò di coraggio e avanzò verso Julia, la quale ne fu contenta. Sorrise e avanzò anch’essa allungando la mano verso di lui.
Il cervo abbassò il capo e indirizzò le corna verso la giovane studiosa. Iniziò poi a caricare verso di lei con una ferocia dettata molto probabilmente dalla paura.
Il terrore invase la ragazza e la paralizzò al punto da non sentire le voci dei suoi amici. I tre la chiamarono più volte e le urlarono di scansarsi. Era immobile. Senza energie in corpo e senza cognizione di quello che stava accadendo. Solo paura. D’un tratto Breeve estrasse la spada e fissò il cervo dritto negli occhi. Questo si arrestò e sostenne il suo sguardo per pochi secondi. Chinò nuovamente il capo e si lanciò come un fulmine verso il guerriero, il quale agitò l’arma per spaventarlo. L’animale continuò imperterrito la sua corsa e, una volta arrivato al cospetto di Breeve, accelerò. Il guerriero impose la spada per attutire il colpo che l’animale gli avrebbero inferto. Le corna e la spada vennero a contatto ed entrambi i contendenti si impegnarono per prevalere sull’ altro. Entrambi spingevano in direzione dell’avversario con forze di diversa intensità e l’animale sembrava sovrastasse di molto il suo avversario. Breeve cacciò un urlo e spinse l’animale in un impeto di violenza. Questo venne scaraventato oltre quel cespuglio da cui aveva iniziato ad osservarli. L’animale, impaurito, scappò a gambe levate.
Dopo quell’ episodio i quattro ripresero il viaggio con un senso di inquietudine che continuava a crescere e che non li avrebbe abbandonati.