Lampioni
Lungo la strada che portava al paese c'erano i lampioni.
D’inverno pareva che la loro luce fosse più debole, forse perché assorbita dalla nebbia.
Fu appunto in una notte tenebrosa che mi ritrovai per via pedalando verso casa al termine del turno di lavoro serale; ci vedevo poco ma avevo fiducia nella mia bicicletta che ormai pareva la cavallina storna.
Fu prima della grande curva, quella che rasenta il muro del cimitero, che improvvisamente i lampioni si spensero.
Mi sentii proiettato nel mondo come doveva essere prima dell’avvento dell’elettricità; noi diamo per scontate troppe cose, come per esempio di vedere dove stiamo andando e che la luce ci protegga dall’ignoto nascosto nel buio.
Non ebbi paura, all’inizio fui solo sorpreso, non vedevo più nulla e di preciso non ricordavo quanto mancava alla grande curva. L’essere vicino al cimitero non mi riempiva di gioia, anche se non sono superstizioso, ma tutti i miei sensi erano all’erta.
Ovviamente mi fermai, nella speranza che il guasto ai lampioni fosse cosa di pochi secondi.
Così non fu.
Ebbi tempo, dopo tanti anni di trascuratezza, di ammirare il cielo, così oscuro e contemporaneamente così profondo e immenso; provai quasi una vertigine per quell’infinità che mi sovrastava, temetti quasi di cascare all’insù.
Le stelle stavano lì da sempre, ma ora pareva che stessero guardando proprio me e che pensassero: “Mbè, che c’è, non ci hai mai viste? Cos’hai da guardare tanto?”
Infatti, era tanto che le guardavo senza vederle, dovevo aspettare il guasto ai lampioni per riscoprirle, che stupido!
A volte, anzi spesso, ci lasciamo vivere, senza guardarci intorno e perdiamo il senso dell’insieme.
L’aria gelida mi tagliava le guance, ma non m’importava, tutto preso com’ero da quella commozione improvvisa; avevo riscoperto qualcosa che era sempre esistito e che avrebbe continuato ad esistere dopo di me.
Mi sentii piccolo e insignificante, un niente assoluto, un sospiro occasionale di qualche dio che aveva ben altri progetti per l’universo, che pensare ai miei raffreddori, alle marchette della mia pensione e a qualunque altro accidente si potesse riferire al mio provvisorio vivere.
Fu in quel preciso momento che smisi di avere paura della morte e l’accettai.
Percepii come non mai d’essere solo un uomo.
Sicuramente un uomo solo.