Autore Topic: perchè si dice così  (Letto 18286 volte)

Doxa

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Re:elettricità
« Risposta #75 il: Ottobre 20, 2015, 21:32:43 »
la storia è lunga, il nome elettricità deriva dall'usa delle prime monete. Era usata la pietra chiamata elettro che è un miscuglio di oro e argento. Le pepitine che vennero usate come prime monete si trovavano in un fiume della Grecia e la leggenda dice che lì stavano perchè vi si era lavato le mani il mitico Re Mida, che lì si era lavato le mani ed aveva passato la sua maledizione al fiume. Come moneta venivano usate anche pezzetti di ambra che come si sa, se strusciata si elettrizza, da ciò il nome di elettricità!

A proposito di elettricità, sul settimanale "Domenica" de "Il Sole 24 Ore" del 18 ottobre scorso, nella pagina 26  c'è un interessante articolo scritto da Laura Leonelli col titolo: "Si raccende la luce di Jacopozzi", con riferimento alla parigina torre Eiffel.

Il fiorentino Fernando Jacopozzi (1877 - 1932) ideò e poté realizzare per la prima volta, col finanziamento di André-Gustave Citroën (fondatore della fabbrica di automobili Citroen), l'illuminazione della Tour Eiffel in occasione dell'"Esposizione internazionale delle arti decorative" nel 1925. Quell'idea ebbe molto successo e fu ripetuta per illuminare altri monumenti e piazze di Parigi. 

Questo è l'articolo della Leonelli:

"Era bastato un clic d’interruttore, quello generale, quello che lega la vita alla luce, e Fernando Jacopozzi, l’uomo che novant’anni fa accese l’immensa struttura della Torre Eiffel, era scivolato nell’oscurità. Sembrava una punizione o un risarcimento alla grandeur francese, visto che Jacopozzi, emigrante di successo, non aveva mai rinunciato alla nazionalità italiana. E sembrava pure che la famiglia di questo genio fiorentino si fosse dimenticata delle sue imprese, fino a quando la nipote, Véronique Tessier Huort, elegante pittrice parigina, ha deciso di collegare nuovamente i fili e riaccendere lo spettacolo di una storia straordinaria. Nel cuore, i pochi ricordi che la madre le ha affidato. Tra le mani, un talismano prezioso, «il libro delle fotografie che uno degli amici più cari di mio nonno, René Baschet, editore de “L’Illustration”, regalò a mia nonna alla scomparsa del marito. Sono partita da qui, ho creato un sito, www.fernandojacopozzi.com, ho lanciato un appello su internet perché chiunque avesse informazioni, disegni, fotografie, ritagli di giornale, mi contattasse. Vorrei ricostruire l’intero archivio dell’Établissement Jacopozzi - racconta Véronique -. E poi vorrei che venisse dedicata una via a mio nonno, vicino alla Torre Eiffel. In fondo, dopo Gustave è lui che l’ha reinventata».
Ma prima che a Parigi, Fernando dovrebbe essere ricordato a Firenze, dove nasce il 12 settembre 1877, in via Giuseppe Verdi, a un passo dalla Basilica di Santa Croce. Di lui si sa poco, ha sei fratelli, è pittore autodidatta nella bottega di un decoratore di insegne, e clandestino in Francia per fuggire al matrimonio. È il 1900 quando Jacopozzi arriva nella Ville Lumière e vede accendersi il profilo della Torre Eiffel, illuminata per la prima volta dall’energia elettrica. Un appuntamento, il primo di tanti ce la farò. «Mio nonno era titanico e dispotico, altrimenti non avrebbe potuto raggiungere questi risultati».
I primi clienti sono i negozianti del 15° arrondissement, a cui Fernando suggerisce di unire alle insegne di caffè e piccole boutique una ghirlanda di lampadine. Improvvisamente la voce della pubblicità invade il silenzio della notte. Nasce un’altra città, al punto che nel 1918 Jacopozzi propone di ingannare gli aerei tedeschi, creando una falsa Parigi notturna e luminosa, sull’ansa della Senna a Villepinte, a quindici chilometri dal centro. Il progetto di camouflage resta sulla carta, ma l’idea è talmente patriottica che Fernando, a quel punto Fernand Jacopozzì, viene nominato Commandeur de la Légion d’honneur. Gli affari prendono il volo.
Nel 1925 Parigi ospita l’Esposizione internazionale di Arti decorative. E se la Torre Eiffel salutasse il mondo come una freccia tra le stelle? «Si può solo immaginare l’indignazione del Comitato dell’Expo, della Società della Torre Eiffel e della stessa città di Parigi, che aveva il controllo sui monumenti, alla presentazione del progetto di mio nonno. Un italiano che stravolge la creatura di Eiffel, mai!». Anche perché era stato lo stesso Eiffel a respingere le sirene del marketing qualche anno prima, e a chi gli proponeva di trasformare il suo capolavoro in un gigantesco cartellone pubblicitario aveva suggerito di rivolgersi ad altri “gestori”: «Quando vedrò le torri di Notre-Dame illuminarsi al crepuscolo, allora offrirò anche la mia torre».
Gustave Eiffel muore nel 1923. Insistendo sulla fraternité che unisce scienziati e artisti, Jacopozzi invita nel suo studio i responsabili dell’Expo. In una stanza dipinta di nero appare una Torre Eiffel, alta tre metri. Si abbassa una leva, e arabeschi di geometria fantastica avvolgono di luce il modellino. I visitatori sono ipnotizzati. Permesso accordato, ma niente finanziamenti. Jacopozzi cerca un mecenate e trova André Citroën. «Mio nonno confessò a sua figlia che l’ufficio di quell’uomo così potente lo aveva impressionato, anche perché aveva fatto un bel po’ di anticamera.
Fu Madame Citroën, in realtà, che convinse il marito a spendere 500mila franchi per scrivere il suo nome sulla Torre Eiffel e vederlo scintillare da luglio a ottobre, dall’Expo alla fine del Salone dell’Automobile». Poche settimane dopo e ai piedi della Tour appaiono cinque lettere di trenta metri l’una, novanta chilometri di cavi e 250.000 lampadine di sei colori diversi, montate su pannelli di legno, da agganciare a loro volta ai trecento metri della struttura di ferro. Gli elettricisti si rifiutano. «Mio nonno non si scompone. In suo aiuto giungono i gabbieri della Marina francese e gli acrobati del circo di Paolo, Francesco e Alberto Fratellini, originari di Prato e già vedettes in tutta la Francia. In due mesi e mezzo l’opera è compiuta. Nessun incidente, solo un braccio rotto. Finalmente arriva la sera del 14 luglio. Mio nonno, mia nonna, mia madre che allora aveva solo tre anni, insieme alla famiglia Citroën, agli impiegati e agli amici, si riuniscono sulla prima terrazza della Torre. L’ordine di accendere gli interruttori viene trasmesso per telefono a Monsieur Lecomte, capomastro dell’impresa Jacopozzi. In un attimo la creatura di Eiffel si veste di luce». Marie Laurencin, ritrattista del bel mondo, tra Coco Chanel e Andrè Gide, scriverà che nessuna donna ha mai indossato un abito più bello. Due anni dopo, nel 1927, le luminarie dell’Établissement Jacopozzi, che ancora animano la Torre, guidano nella notte Charles Lindbergh fino all’aeroporto di Bourget. Gloria. Jacopozzì diventa Jacò.
Tutti lo chiamano, dalla Galerie Lafayette al Bon Marchè, dalla Samaritaine ai Grands Magasines du Louvre. Italo Stalla, pittore italiano, collaboratore di Jacopozzi, inventa le insegne più originali. Nell’illusione del movimento suggerito da migliaia di lampadine accese e spente in pochi attimi, una cicogna spicca il volo, un elefante innaffia una scimmia nascosta tra le palme, e persino Ercole uccide l’Idra, scagliando una pioggia di pietre da Rue de Rivoli a Rue Saint Honorè, come testimoniano le fotografie di un altro amico di Fernando, Léon Gimpel, virtuoso del colore e reporter de «L’Illustration» (si veda la bella mostra nell’ambito della Biennale Foto/Industria a Bologna).
Nel 1930 il Cardinale Verdier si lascia tentare dal peccato della pubblicità e chiede di “accendere” Notre-Dame per il centenario del romanzo di Victor Hugo. L’illuminazione è miracolosa, un vapore tenerissimo che avvolge la chiesa, grazie a un sistema rivoluzionario di proiettori nascosti tra le pieghe dell’architettura. Un soffio e la cometa di Jacopozzi tocca l’Arco di Trionfo e tutti i monumenti di Parigi. Quando le Prince de la lumière muore a soli cinquantacinque anni nel 1932, Parigi si spegne per tre giorni in segno di lutto. Poi la città torna ad animarsi. Il mago che l’ha fatta brillare, invece, resta nel buio. Per fortuna una donna ha riacceso la luce".


 

Doxa

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Re:perchè si dice così
« Risposta #76 il: Novembre 19, 2015, 05:51:34 »
Petulante

Petulante: aggettivo che deriva dal latino “petulantis”, e questo dal verbo “petulare” (= chiedere), ma nel nostro tempo viene usato col significato di “annoiare”, “infastidire”.
 
E’ detta “petulante” la persona invadente, fastidiosa, inopportuna. 

Affine al verbo “petulare” è “petere”, indica il dirigersi, l'andare, ma pure il “domandare”.
 
Da “petere” deriva  il sostantivo “petizione” (dal latino “petitiònis”): richiesta  in forma scritta ad un’autorità per ottenere un beneficio od altro.

Il prefisso “com” + “petere” dà il verbo intransitivo “competere” (= gareggiare), dal latino “cum” (= con) + “petere” (= andare).
 
Da competere deriva il sostantivo femminile “competenza” (dal latino “competentia”), usato per indicare la conoscenza  del procedimento per un determinato lavoro, oppure l’idoneità ad emanare determinati atti giuridici, ma anche la spettanza salariale. “Essere competente” , idoneo a… risolvere determinate questioni, giudicare, ecc..

Da “petere”  discende “peditum” ed il sostantivo  “péto”, che indica la flatulenza, l’emissione di gas intestinale attraverso l’ano.
Al  peto è collegato il “petomane”:  l’individuo capace di fare peti a comando, modulandone la durata e l'intensità.

“Il petomane” è anche il titolo di un film commedia del 1983, diretto dal regista Pasquale Festa Campanile,  basato sulla vita del fantasista francese Joseph Pujol,  conosciuto come "Il petomane".

Doxa

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Re:perchè si dice così
« Risposta #77 il: Novembre 20, 2015, 00:27:42 »
Querulo

Querulo:  aggettivo che deriva dal latino “querŭlus” (e questo dal verbo “queri” = lamentarsi): indica la persona abitualmente lamentosa. Caratteristica questa riscontrabile in numerosi anziani malati oppure nelle persone angustiate dalla sfortuna.

Dal verbo latino “queri” si diramano:

- il sostantivo “querela”:  nell’ambito del diritto indica l’atto giudiziario con cui la persona che si ritiene offesa da un reato manifesta la volontà di far processare il colpevole;

ed il sostantivo “questua”: raccolta di denaro a fini caritatevoli o religiosi;
dal latino quaestus guadagno, derivato di quaerere cercare.

La questua non va confusa con l’elemosina, che indica l’offerta di denaro ad una persona economicamente bisognosa.
Il termine “elemosina”  deriva dal greco eleèo (= ho compassione), da cui attraverso l'aggettivo eléemon (=compassionevole) passò  nella lingua latina nella forma “eleemosyna”.

L'elemosina si distingue dal dono,  se considerato come  reciproco scambio rituale o sociale.

Doxa

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Re:perchè si dice così
« Risposta #78 il: Gennaio 07, 2016, 15:50:38 »
Utopia, distopia

Utopia: parola composta da “u” + “topia”. Il lemma deriva dal greco  “oy” (= non) + “topos” (= luogo), significa “non luogo”. Fu il cancelliere inglese  Tommaso Moro ad usare per primo, nel 1516,  il neologismo “utopia”  per titolare la sua teoria di legislazione e di governo modello per un paese immaginario, che denominò “Utopia”.  Nella parola, coniata da Tommaso Moro, è presente in origine un gioco di parole con l'omofono inglese “eutopia”, derivato dal greco εὖ ("buono" o "bene") e “topos” (= luogo"), che significa "buon luogo".  Quindi utopia come luogo buono/bello ma inesistente o irraggiungibile.

Utopico può essere un irreale assetto politico, sociale e religioso che viene proposto come ideale ma non raggiungibile; in questa accezione, può avere il connotato di punto di riferimento su cui orientare azioni pragmaticamente praticabili.

Il contrario di utopia è “distopia”, parola composta da “dis” + “topia”. Il prefisso “dis” ha valenza negativa.
Fu il filosofo e deputato britannico John Stuart Mill il primo ad utilizzare nel 1868 il termine “distopia” durante un dibattito politico in Parlamento per criticare il governo sulla questione irlandese.
Per distopia s'intende un'immaginaria società o comunità indesiderabile o spaventosa. La distopia è usata anche in letteratura.

p.s. da oltre un mese ho segnalato all'amministratore che per un inconveniente tecnico non è possibile usare nel forum  il grassetto o il colore, perciò non ho potuto evidenziare le parole utopia e distopia. E' capitato anche a voi  questo problema ?
« Ultima modifica: Gennaio 08, 2016, 08:23:05 da dottorstranamore »

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Re:perchè si dice così
« Risposta #79 il: Febbraio 29, 2016, 00:05:38 »
Squatter: lemma inglese, deriva dal verbo “to squat” (= accovacciarsi, ma anche occupare).

L’antenato del sostantivo “squatter” era il vocabolo latino “coactus”  (=rannicchiato), participio passato del verbo “cogere”. Ma l’infinito “cogere” tramontò nel tardo latino ed entrò in azione il participio “coactus” (da cui “coatto”, usato a Roma per indicare l’emarginato, lo sradicato) e si costruirono gli infiniti “coactare” e “coactire”. L’infinito “coactare” fu usato nell’italiano medievale e derivò “quattare”, che poi divenne “”acquattare”;  invece nel parlato francese medievale fu utilizzato l’infinito “coactire”, che col tempo divenne “quatìr” (= acquattare, far chinare a terra), che sviluppò il riflessivo “se quatir” (= acquattarsi). Questo verbo riflessivo “attraversò” il canale della Manica, venne adattato dagli anglofoni alla pronuncia inglese e riaffiorò alla fine del 18/esimo secolo nella forma “squat”, che come suddetto significa  accovacciarsi, ed anche occupare senza autorizzazione.

Dal verbo “to squat”  derivò il sostantivo “squatter” (= occupatore non autorizzato): nel passato connotava i coloni  che in Australia e negli U,S.A.  occupavano le terre libere non coltivate e se ne appropriavano. Nel nostro tempo lo “squatter”è il contestatore che occupa abusivamente edifici abbandonati. Questo significato comparve nel 1880.

Birik

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Re:perchè si dice così
« Risposta #80 il: Febbraio 29, 2016, 09:51:46 »
Sono stata corretta quando ho scritto mussulmani con due "s". Dunque ho scoperto che si può scrivere sia con una che con due "s". L'etimo scritto ne preferisce una sola, musilman, dal Persiano antico. Ma il suono in Italiano non è bello, una sola s risulta dolce e sorda e allora io preferisco scriverlo con due.

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Re:perchè si dice così
« Risposta #81 il: Marzo 01, 2016, 00:10:30 »
Impalmare

Impalmare: questo verbo ha almeno due significati:

il primo,  indica la stretta di mano tra due persone: congiungere il palmo della propria mano a quello di un’altra; unire tra due individui le palme delle mani in segno di amicizia, di intesa, di accordo raggiunto, ecc.. 

Nel secondo significato la parola impalmare  veniva usata nel passato per indicare la donna promessa sposa. Secondo un’antica usanza i promessi sposi  si scambiavano una stretta di mano in segno di impegno. Poi “impalmare” assunse prevalentemente il significato di “sposare”. Nell’uso moderno viene utilizzato in modo scherzoso con riferimento all’uomo che "impalma una ragazza”.

Ma si dice palmo o palma della mano ?  Barbara Fanini dell’Accademia della Crusca dice che “la superficie della mano opposta al dorso è sempre di genere femminile”. “Mostrar la palma aperta e ’l pugno chiuso”, scriveva Petrarca nei “Trionfi”.  E al femminile la indicano  molti letterati, da Dante ad Ariosto, da Foscolo a Manzoni. “Eppure, chiosa la cruscante Fanini,  è impossibile negare che oggi, non soltanto nell’uso informale quotidiano, si stia progressivamente imponendo la forma maschile palmo”.

“Già in latino esisteva questa ambiguità di genere, poiché pălmus, maschile, aveva il duplice significato di ‘palma della mano’ e ‘misura di lunghezza’, concorrendo con la forma femminile pălma ‘palma della mano’ e ‘palma (albero)’, da cui derivava etimologicamente”.

“Palmo per ‘palma della mano’ entra nella nostra lessicografia quasi di nascosto, grazie al (dizionario)Tommaseo-Bellini (1871), il quale inserisce, prima delle locuzioni particolari (“avere un palmo di barba”, “restare con un palmo di naso”, “a palmo a palmo”), uno dei “Proverbi toscani” raccolti da Giuseppe Giusti (“liscio come il palmo della mano”), corredato della nota ‘il popolo fiorentino dice Palmo e non Palma’. […] Particolarmente interessante è il caso dello Zingarelli che, edizione dopo edizione, documenta l’evidente diffusione della variante maschile nella penisola e, dunque, la sua rapida ascesa al livello di lessico nazionale standard: fino al 2005, infatti, il dizionario registra palmo come variante “specialmente toscana” di ‘palma della mano’; nell’edizione pubblicata l’anno seguente scompare la restrizione geografica e viene aggiunta un’attestazione pirandelliana (“mi grattavo con una mano il palmo dell’altra”). Nell’edizione del 2009, poi, la fraseologia è accresciuta della locuzione “portare, tenere qualcuno in palmo di mano (in senso figurato),  considerarlo, stimarlo moltissimo”.

[…] Ma come si spiega questo successo della forma maschile (che, si noti, interessa anche il plurale)? In fondo, quella femminile è sostenuta dall’etimo, dal vasto impiego nei classici della letteratura, nonché dal parallelismo con la pianta del piede, anch’essa femminile. Il passaggio di genere potrebbe essere stato forse favorito da un’assimilazione alla -o finale di mano, voce cui palmo si trova frequentemente abbinato. Ma, più facilmente, per giustificare l’imporsi della forma maschile si dovrà ricorrere all’influenza esercitata dall’unità di misura (semanticamente e idealmente prossima, è ovvio, alla nostra accezione) e dal suo massiccio impiego figurato nel quotidiano, specialmente nelle locuzioni e nei modi proverbiali (es. “battere/girare/cercare palmo a palmo”, “un palmo di terra”, ecc.). In questo senso, anche il frequente accostamento palmo/naso in espressioni come “non vedere a un palmo dal naso”, “rimanere con un palmo di naso”, potrebbe aver giocato a favore del consolidamento del binomio palmo/mano.

[…] se proprio vogliamo trovare un discrimine fra le due forme, potremmo consigliare l'uso della forma palma nei registri più formali, mentre si può impiegare quella maschile in tutti gli altri casi”.

Doxa

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Re:perchè si dice così
« Risposta #82 il: Marzo 03, 2016, 17:01:10 »
Mignotta

Il sostantivo femminile “mignotta” nel significato contemporaneo indica la prostituta, ma l’ingiurioso epiteto viene addossato anche alla donna che in cambio di favori o di denaro “vende” la propria dignità per entrare nelle grazie di qualcuno, anche a discapito di altre persone.

Etimologicamente la parola “mignotta” non è l’acrostico che   indica il figlio di “madre ignota” (formula questa nel passato utilizzata per registrare nei libri dello stato civile i “trovatelli”, gli “esposti”, quelli abbandonati  nella “ruota degli innocenti”) è invece da ricondursi, secondo l’etimologo Daniele Baglioni (nel suo libro “L’etimologia”) al francese “mignote”, che significa “favorita”, della stessa radice di “mignon”, con originaria connotazione affettiva di piccolina, minutina.     

Metaforicamente il termine viene usato con ira verso una persona specie per motivi di traffico automobilistico. A Roma è facile udire la frase “a fijo de na mignotta”: col continuo uso di questo insulto la frase ha perso vigore e sta diventando solo un modo di dire, una parola socialmente decaduta che lascia indifferente l’offeso.

L’insulto sessista sta diventando “normale”.

La giornalista Nadia Somma, che s’interessa delle donne vittime della violenza ha scritto sul giornale “Il fatto quotidiano”: “"Scortum era la parola che definiva la prostituta in epoca romana si trattava di un vocabolo appartenente alla declinazione del neutro, perché in latino si declinavano al neutro gli oggetti o le piante ad esempio, ovvero cose inanimate o elementi della natura, prive di soggettività. Ancora oggi insultare una donna dandole della puttana o della troia significa sottrarle soggettività, cercare di annichilirla a una mera funzione sessuale: quell’insulto in sé non costituisce solo un atto di violenza verbale, ma implica una sottintesa minaccia (che ogni donna avverte) dell’esposizione a potenziali violenze. E infatti è quasi sempre quell’insulto che viene rivolto alle donne che subiscono violenza, durante lo stupro (o le percosse nella violenza domestica) e anche dopo lo stupro. E’ quello che si dice di una donna che viene stuprata quando si prendono le parti degli stupratori, cosa che da noi avviene spesso. “Se l’è andata a cercare?”. Perché se “sei puttana. Sei terra di nessuno e non appartieni nemmeno a te stessa.” La morale è sempre quella.”

Dal latino “scortum” alcuni fanno derivare il famigerato sostantivo inglese “escort” (= accompagnatrice/tore), riferito alle cosiddette “mignotte” d’alto bordo  che non si prostituiscono sulle strade ma usano l’intermediazione di agenzie o individui  che permettono il contatto e l’accordo per avere un accompagnatore/trice per la serata, naturalmente pagando. Con il termine escort comunque non si intende per forza accompagnamento sessuale, può semplicemente essere una compagnia per una serata al ristorante, a un concerto di musica classica o a teatro; queste figure infatti sono eleganti, ben vestite e anche se oggi il termine si utilizza sempre più spesso con significato sessuale.

Il sostantivo”scortum”, col significato attuale di “escort”, rimanda alla greca Mnesarete, conosciuta col soprannome di Frine, etèra famosa per la sua bellezza. Nell’antica Grecia le etère erano cortigiane e prostitute con istruzione superiore, eleganti nel vestire, libere di uscire in pubblico. Oltre alle prestazioni sessuali offrivano compagnia. I clienti avevano spesso con queste relazioni prolungate.

Le etère non devono essere confuse con le pornai, le donne che  per denaro si prostituivano in strada o nei bordelli.  Nella sua orazione "Contro Neaira", il ricco politico ed oratore ateniese Demostene (384 – 322 a.C) disse: "Abbiamo le hetaerae per il piacere, le pallakae per prendersi cura di noi nelle necessità quotidiane ed infine le gynaekes per generarci dei figli legittimi e per essere fedeli custodi delle nostre famiglie."

Un’altra celebre etèra fu Aspasia di Mileto (470-400 a. C), compagna del politico e militare ateniese Pericle. Lo storico e filosofo Plutarco racconta che Aspasia riuscì ad inserirsi nella società che contava, grazie alle sue doti di sapienza e di astuzia. Dopo molti anni di convivenza, Aspasia riuscì anche a farsi sposare da Pericle, con il quale ebbe un figlio.

Doxa

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Re:perchè si dice così
« Risposta #83 il: Marzo 08, 2016, 00:19:07 »
Secessione

Nel 494 a.C. ci fu a Roma la prima “secessione” (sciopero) contro i patrizi della città.  Vi parteciparono soldati e plebei. Secondo quanto narra lo storico Tito Livio in “Ab urbe condita”,  la rivolta fu sedata dal senatore Menenio Agrippa con il suo apologo sullo stomaco e le membra che devono lavorare insieme per la salute di tutto il corpo. il convincente Agrippa paragonò l'ordinamento sociale romano a un corpo umano, nel quale tutte le parti sono essenziali. L'apologo ebbe l'effetto desiderato: si ottenne dai patrizi la promessa di ridare la libertà ai debitori e di regolare le relazioni tra creditori e debitori. Prima di rientrare nell’urbe i plebei chiesero ed ottennero l'istituzione dei tribuni della plebe (magistrati tutori dei plebei dalle angherie dei patrizi) e degli edili della plebe,  l'istituzione di una propria assemblea, il concilium plebis, che eleggeva i tribuni e gli edili plebei. Le delibere dei concilia plebis (plebisciti) avevano valore di legge per i plebei. Sia i tribuni che gli edili della plebe erano inviolabili.

Terminò così la prima secessione nella storia della nostra penisola. Quello sciopero della plebe romana  nella lingua latina venne denominata “secessio plebis”. Fu una forma di lotta politica adottata più volte  tra il V ed il III secolo a.C.. La plebe abbandonava in massa la città. In questo modo tutti i negozi e le botteghe artigiane restavano chiuse ed inoltre non era possibile convocare le leve militari che in quel periodo facevano sempre più ricorso anche ai plebei.

Il sostantivo “secessio” deriva dalla parola composta “secedere” (= appartarsi, isolarsi). Il significato è nel prefisso “se-“: indica “distacco”, “separazione”, come in “se–cernere” (= scegliere distinguendo) e in “se–parare” (= sistemare dividendo).

“Se-cedere” in origine significava “camminare” andando in disparte, distaccarsi.  Il concetto si è sostanzialmente mantenuto in alcune parole composte della lingua italiana:  “in-cedere”, “pre-cedere”, “pro-cedere”, “re-cedere”, “de-cedere” (= andarsene nel senso di morire), “ec-cedere”, “suc-cedere”.

Nel tempo il lemma“secessio”  attraverso il latino medievale giunse nell’epoca moderna e nel lessico della politica. 
Il linguista Giovanni Gobber afferma che nel XVII secolo gli inglesi usarono questo sostantivo per indicare la “separazione” dell’Inghilterra dal papato;  nel XVIII secolo la “secession” da Londra delle colonie inglesi d’America;  nel XIX secolo ci fu la guerra di secessione americana dal 12 aprile 1861 al 9 aprile 1865, nota come la “guerra civile”, combattuta tra i cosiddetti “sudisti” e “nordisti”, cioè fra gli Stati Uniti d'America e gli Stati Confederati d'America, entità politica sorta dalla riunione confederale di Stati secessionisti dall'Unione.

Ancòra nel XIX secolo nella lingua italiana la secessione evocava la “secesso”: termine derivato dal latino “secessus” (= ritirata, luogo appartato, ma anche partenza), participio passato di “se-cedere”.
Nell’anno 62 il filosofo Seneca iniziò il suo “secessus”, il ritiro definitivo dalla vita politica.
L’espressione latina “locus secessus” significa “luogo appartato”.

Per il vocabolario della Crusca del 1612 il “secesso” è un “luogo deputato ove deporre il superfluo peso del ventre”. Nella lingua italiana contemporanea il “secesso” si è liberato del prefisso “se-“ ed è diventato “cesso” (= gabinetto).  Ma “cesso” è anche la prima persona singolare presente del verbo cessare e participio passato del verbo cedere.

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Re:perchè si dice così
« Risposta #84 il: Marzo 09, 2016, 00:13:16 »
Scrutare

Dal verbo latino “scrutor” derivarono altre parole in lingua latina, poi  continuate nella lingua italiana: scrutare, scrutatore, scrutinio, scrutinare, scrutinatore.

Dal sostantivo latino “scruta” (= cenci, stracci, abiti usati) derivò “scrutor” ( = rovistare, frugare) e “scrutarius” (= straccivendolo, cenciaiolo).

“Scrutor” poi intraprese un lungo cammino e  venne ampliato di significato:  arrivò ai verbi perquisire , indagare, esaminare. “Scrutator” era “colui che indaga”.

Da “scrutari” (= scrutare) derivò il tardo latino  “scrutinium”, per indicare la “perquisizione”, ma anche  l’“indagine”.

Nel Medio Evo lo “scrutinium” divenne il nome di un tipo di elezione usato nelle assemblee ecclesiastiche. Fra i votanti venivano scelti gli “scrutatores” (= esaminatori), che “scrutavano”  e computavano i voti espressi dai votanti. 

Lo “scrutinium” divenne  in italiano il sostantivo “scrutinio”, attestato nella nostra lingua dal XIV secolo, anche nelle versioni “scrotinio”, “scruptino”.

Lo scrutinio è il procedimento mediante il quale la commissione di insegnanti valuta gli alunni di una classe. In questa accezione la parola si fa risalire al 1911, anno in cui uscì un libro titolato "Esperimenti, scrutini ed esami nelle scuole elementari".

"Scrutinio" dà origine anche al verbo "scrutinare", che trasforma gli addetti alle votazioni trimestrali o di fine anno in "scrutinanti" che “esaminano”, “indagano”, valutano” il profilo scolastico degli studenti. Invece gli “scrutatori” dei seggi elettorali si limitano ad esaminare le schede e a contare i voti espressi dai votanti.

Gli insegnanti sono dunque più fedeli al significato originario di “scrutinio”.

Birik

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Re:perchè si dice così
« Risposta #85 il: Marzo 09, 2016, 16:26:25 »
Infinocchiare. Il finocchio, con il suo gusto aromatico,riesce a mascherare il sapore del vino cattivo  diventato quasi aceto. Ecco perché veniva servito nelle taverne prima del vino. Da questa usanza il verbo è diventato sinonimo di 'imbrogliare'.

Doxa

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Re:perchè si dice così
« Risposta #86 il: Marzo 10, 2016, 00:05:30 »
Dossier

Dossier:  questo sostantivo ci perviene dal francese “dos” (= dorso), “dorsum” in lingua latina.

In origine  per dossier s’intendeva il dorso della cartella o del faldone sul quale viene scritto il titolo della pratica contenuta.

Nella lingua francese il sostantivo dossier designa lo “schienale” di una sedia o di una poltrona, ma viene anche usato per indicare il dorso del corpo umano.

Il “dossier” femminile  può essere visibile dal vestito con la “generosa” scollatura sul retro ed accollato sul davanti  per mantenere un look di classe e nel contempo permettere alla donna che lo indossa di essere sexi.
 
Al “dossier” femminile gli scrittori  umoristici Carlo Fruttero (1926 – 2012) e Franco Lucentini (1920 – 2002) dedicarono un breve capitolo nel loro  libro “Il cretino in sintesi”, del 2003.  In questo volume, il quarto di una serie,   i due autori offrono la sintesi conclusiva della “Trilogia del cretino”, tre libri pubblicati in date diverse con la loro riflessione trentennale sulle incarnazioni del cretino: "La prevalenza del cretino" uscì nel 1985, "La manutenzione del sorriso" nel 1988 e "Il ritorno del cretino" nel 1992. Secondo i due scrittori questo argomento è sempre di scottante attualità: “Il cretino è imperturbabile, la sua forza vincente sta nel fatto di non sapere di essere tale, di non vedersi né mai dubitare di sé”.

Per Fruttero e Lucentini “dossier” è un  “Termine della moda francese  entrato ormai nel nostro lessico, designante la scollatura sul dorso (“dos”) degli abiti femminili. Molto in voga sotto il Direttorio (1795 – 1799…-durante la Rivoluzione francese-), ma disapprovato da Napoleone I (‘in tutte le battaglie, anche amorose, il primo dovere è coprirsi le spalle’, scriveva da Milano a Joséphine di  Beauharnais), fu infine messo fuori legge da un decreto del ministro di polizia Fouché, che pure si diceva avesse una morbosa predilezione per quelle nudità svelate.
Riapparso fugacemente durante il Congresso di Vienna (l’abito femminile scollato sul dorso), non fu tanto la Restaurazione a causarne la decadenza bensì l’improvvisa fortuna di due scialli esotici (spagnolo, di merletto nero; e anglo-indiano, di cashmir), che rendevano il dossier invisibile o, come ebbe a definirlo Mérimée, ‘teneramente segreto’. Caduta la crinolina, il dossier fu riabilitato dai grandi sarti Worth e Poiret, finché negli anni detti ‘tra le due guerre’ il charleston e l’attrice Jean Harlow ne promossero il trionfo.
Soppiantato nel 1945 dal décolleté, ebbe in seguito qualche saltuario revival, con profondità giudicate da taluni scandalosamente abissali.
L’austero segretario del partito comunista italiano, Palmiro Togliatti, giunse a redarguire pubblicamente una signora in un ristorante romano. ‘Il suo non è un dossier  -l’apostrofò a voce alta-  è un fessier !’ (da ‘fesse’, gluteo). La donna, ex ballerina al Crazy Horse di Parigi, reagì gettando in faccia al leader comunista un bicchiere di frascati e procedendo poi a spogliarsi completamente. ‘Tiens, je vais te montrer mon connier aussi !’ sembra abbia urlato. Ma il cavalleresco Togliatti si rifiutò di tradurre il volgare gioco di parole agli agenti subito accorsi e si limitò ad auspicare che l’incresciosa persona venisse accompagnata a Modane”
, Comune francese nel dipartimento della Savoia, che fece parte del regno di Sardegna fino al 1861. Modane è sullo sbocco francese sia del traforo ferroviario del Frejus che su quello stradale.

Doxa

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Re:perchè si dice così
« Risposta #87 il: Marzo 25, 2016, 00:07:26 »
"Defensa": parola di origine latina attestata nei toponimi. Indica un luogo difeso, chiuso, come per esempio la cosiddetta “bandita”, nella quale sono proibiti il  pascolo, la caccia, la pesca, anche al proprietario del fondo agricolo. Invece è possibile nella “riserva di caccia”  pagando una tassa di concessione.
L’area protetta è di solito destinata al ripopolamento delle specie, perciò vige il divieto di caccia, pesca, pascolo, raccolta e transito senza autorizzazione.
Oltre alle bandite di Stato, nei territorî demaniali, e alle bandite private, esistono bandite gestite da enti e associazioni.

Il sostantivo femminile “bandita” deriva dal verbo “bandire” (e questo dal gotico  bandwjan = “fare un segnale”), significa  annunciare con pubblico bando o con avviso ufficiale.
Nel latino medievale  la parola  “bandire” veniva usata anche col significato di “esiliare”: gli Ateniesi bandirono Aristide; Dante fu bandito da Firenze.

Il verbo bandire in francese si traduce con “bannir”. La parola francese ban (= divieto) proviene dal verbo “bannan” (da cui l’attuale “bannare”) che veniva usato al tempo dei Franchi  col significato di “condannare”, “interdire”, “vietare”.

Dal verbo “bandire” deriva anche bando banditore.

Il bando è una comunicazione di pubblico interesse,  Quando non c’erano gli attuali mass media veniva reso noto dai “banditori”, eredi degli antichi araldi, i quali informavano i cittadini delle disposizioni emanate dalle autorità civili e religiose.

In Italia fino agli anni ’50 dello scorso secolo il civico banditore annunciava il suo arrivo nelle strade del paese con il suono di una trombetta o percuotendo un tamburo. Poi ad alta voce comunicava le ordinanze del sindaco, le  disposizioni di altre autorità, oppure informava dell’arrivo in piazza di un commerciante ambulante. Il banditore era una delle figure più pittoresche che un tempo animavano la vita delle nostre comunità, uno dei  mestieri ormai scomparsi.



nihil

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Re:perchè si dice così
« Risposta #88 il: Marzo 30, 2016, 10:23:38 »
dottoreeee, ti chiedo aiuto: perchè si dice "l'amore è cieco"? lo so benissim io, c'è di mezzo la suocera Venere, ma non trovo più il testo della leggenda che mi pare averlo letto nelle Metamorfosi di Ovidio. Ho bisogno della storia completa per leggerla in un ospizio dove vado a parlare con le vecchiette. Me la stroveresti la storia VERA?  :-* :-* :-* :-* :-*

Doxa

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Re:perchè si dice così
« Risposta #89 il: Marzo 31, 2016, 08:14:45 »
Gentile Nihil,  ti riferisci alla fiaba di “Amore e Psiche” raccontata nelle  “Metamorfosi”, scritte da  Apuleio nel II sec. d.C. ?  Questo autore narra la storia della giovane Psiche, la cui bellezza  suscita la terribile gelosia di Venere e l’amore appassionato di Cupido.


Antonio Canova: Amore e Psiche

Per quanto riguarda il detto popolare “l’amore è cieco”  di solito viene usato per definire le coppie asimmetriche per “bellezza”, status sociale, cultura, livello di istruzione, “doti nascoste”.   Tali coppie vengono “criticate”,  ma le persone che giudicano dimenticano il detto di Gesù:   “Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo?” (Lc 6, 41).

La simbolica rappresentazione dell’amore cieco ci è stata donata dal pittore surrealista belga René Magritte (1898 – 1967) col suo famoso dipinto titolato “Les amants” (Gli amanti). 



Il quadro raffigura due amanti che si baciano con le teste coperte da un panno bianco che impedisce loro di vedersi e comunicare.
Nascondendo i volti, rendendoli non visibili, il pittore vuole mostrare i molteplici significati del reale attraverso nuovi punti di vista.
Come spiega lo stesso Magritte: “C’è un interesse in ciò che è nascosto e ciò che il visibile non ci mostra. Questo interesse può assumere le forme di un sentimento decisamente intenso, una sorta di conflitto, direi, tra visibile nascosto e visibile apparente”.
L’innamoramento e l’amore alterano la percezione del/la partner. “Impediscono di vedere” i “difetti” della persona amata.  Difetti che invece vengono notati dagli estranei non coinvolti dal  turbinio dell’amore.

L’innamoramento  conduce all’attaccamento, al legame, all’amore che trasforma l’io e il tu in noi.

Francesco Alberoni nel suo libro “Innamoramento e amore”  afferma che l’innamoramento è caratterizzato dall’intenso coinvolgimento emotivo ed affettivo e dal desiderio sessuale. In questa fase il legame diventa più forte ed esclusivo…”.

Con la persona amata non sei mai solo, perché solo lei completa la tua esistenza, le dà significato, dà la “cecità” verso altri possibili partner.  Sai che ti è fedele e tu le sei fedele, perché non sapresti cosa fartene di un’altra persona, anche se più bella, più ricca, più colta.

Poi, il tempo passa, l’innamoramento confluisce nell’amore, e se questo si attenua o diventa evanescente  i difetti tornano in primo piano, con fastidio, e possono diventare insopportabili.

Ma dov’è la persona giusta al momento giusto ?