Autore Topic: Alina  (Letto 1769 volte)

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Alina
« il: Settembre 25, 2012, 11:00:21 »
                   



Alina


Quella notizia in prima pagina Luigi non l’aveva ancora letta.

Era un bar accogliente il suo, fasciato dalla musica jazz di cui amava il sound vellutato, dalle chiacchiere dei numerosi avventori, dall’arcobaleno dei cocktails, dalla vista, proprio di fronte, delle barche sulla spiaggia: sembrava la siesta di enormi cetacei a riposo, fuori dal mondo come sogni mai realizzati.

La notizia era sul quotidiano lasciato aperto, su quel tavolino, l’ultimo in fondo al locale.

Di Luigi appena entravi vedevi il sorriso, poi i capelli neri lunghi sul collo. Aveva mille di tutto: parole, risate, mani; dirigeva da solo l’orchestra del suo bar, una Dixieland caciarona e goliardica.
Solo qualche volta, in certe ore del tramonto, Luigi guardava le barche capovolte sulla spiaggia, immobile, pensando a chissà cosa, a chissà chi.
Si sedette a leggere il giornale nel pomeriggio. Il bar quasi deserto era un ventre vuoto, mentre un incantesimo di silenzio lo avvolgeva.
Avevano ferito una prostituta, in un paese a 700 km. da lì; Alina Dubrovsna. La foto. L’efferatezza. L’edificio della notizia costruito piano su piano. Lui si era fermato alla fotografia, appena sotto l’urlo del titolo. Quell’immagine aveva spalancato la porta dei suoi ricordi e si era ritrovato seduto ad un altro tavolo, di un altro bar, a leggere un altro giornale: Breslavia, agosto 2000, primo mattino, ultimi giorni di ferie.


Era rimasto solo, gli amici con cui era partito, erano ritornati in Italia il giorno prima. Lui aveva deciso di restare un’altra settimana, voleva vagabondare senza orari, senza nessuno con cui dover continuamente negoziare mete  o altro.
Quella mattina, si era alzato presto, alloggiava all’ostello Meleczani adesso. Era un luogo caldo e informale, le stanze si raggiungevano salendo una scala di legno mentre la hall era in realtà un grande salone organizzato ad angoli: l’angolo del computer, l’angolo della lettura. Lui li chiamava così. Era un via vai di gente continuo, Luigi si sentiva a suo agio in quel luogo, all’Art Hotel, dove aveva alloggiato con gli amici, si era sentito a disagio, gli alberghi non gli piacevano.
Quella mattina aveva deciso di visitare il vecchio edificio della Hala Targova, all’interno del quale si teneva il mercato: alimentari, salumi, dolci, frutta e verdura, si presentarono ai suoi occhi, colorandoli di un arcobaleno fresco che sembrava chiamarlo. Le bancarelle si contendevano la sua attenzione, al pari dei venditori che lo invitavano,dicendo chissà cosa, a provare le loro mercanzie profumate. Luigi sapeva solo dire Dziekje, grazie, e continuava a ripeterlo, veramente grato perché sentiva che quella città gli si stava finalmente concedendo, con i colori del suo cibo, le voci che parlavano quell’idioma impossibile, irto di consonanti eppure dolce nell’intonazione, gli odori forti provenienti dai ristoranti e dai pub disseminati ovunque, continui attracchi accoglienti accanto all’acqua dell’Oder, che, silenziosa, scorreva a poca distanza da lì.
Percorso tutto il mercato, a destra dell’entrata, trovò il Bar Mleezny, dalla sua inseparabile guida aveva appreso che in quella tavola calda servivano degli ottimi pierogi, ravioli pieni di carne, cavolo, funghi, ricotta e a richiesta frutta fresca.  Entrò, si sedette. Si mise a guardare un giornale che qualcuno aveva dimenticato sul tavolo.
Qualche giorno prima, passando con i suoi amici, aveva visto una cosa straordinaria su quel tavolo: una grossa ciotola di mollica di pane, sembrava una pentola di terracotta smaltata: lucida, stesso colore, stessa forma, una pentola con tanto di coperchio. La guida gli aveva raccontato che dentro quella ciotola c’era lo zurek, segale fermentata e salsiccia.
Avrebbe voluto fermarsi davanti a quella meraviglia ma gli amici lo avevano portato via a vedere chiese, bellissime, austere, imperdibili, le pentole di pane potevano aspettare.

Lo guardava con aria interrogativa quella cameriera, forse gli aveva già chiesto qualcosa e lui, assorto, non aveva sentito.
 La guardò. Ordinò un cappuccino e riuscì ad ottenerlo nonostante il suo inglese stentato.
Quando si alzò per andare alla cassa a pagare si accorse che lo guardava.
Uscendo, la vide al banco da sola, lavava i bicchieri.
“What’s your name?”
“Alina”
Aveva una sguardo che ricordava qualcosa di solido, una forza verde, compatta.
“I’m Luigi “
Si accorse di ritornare sempre in quel bar solo quando un giovane cameriere, in un inglese più stentato del suo, gli disse:
“I’m sorry mister, your table it’s taken “
Non si era accorto di avere qualcosa di suo in quel posto: ”Il suo tavolo è occupato.”
“Do you like that? “
“Yes, thanks. “ Si grazie, va bene un tavolo qualunque pensò; sceglievo sempre l’altro perché è lì che l’ho vista la prima volta, è stato come rimettere una canzone sempre da capo, sempre dall’inizio.
Cominciarono a vedersi dopo il lavoro. Passeggiavano, senza dirsi molto, conoscevano troppo poco l’unica lingua nota ad entrambi per metterci dentro sensazioni troppo intime.
La prima volta che si videro fuori da quel locale si diedero appuntamento nella piazza del Mercato.
Luigi era arrivato in anticipo: agosto, domenica mattina, ore 10.30.
Il municipio gotico al centro della piazza pretese la sua attenzione, quella magnificenza solida e solenne lo portò per un attimo via da lì, da quell’emozione intima, quasi negata, che provava per quell’incontro.
Stava per consultare la sua guida quando la vide: capì che non l’avrebbe mai raggiunta veramente, era forte e distante come quel monumento bellissimo.
Cominciarono a camminare; arrivarono fino all’università, attraversarono l’Odra, in riva alla quale, videro lo gnomo lavandaio.
-   Little man – sorrise Alina
-   Goblin – corresse Luigi e le prese la mano. Lei gliela diede con naturalezza. Non avevano tante parole, cercavano dei gesti che potessero accorciare le distanze.
Arrivarono all’’isola della Cattedrale. Decisero di salire in cima alla torre della Cattedrale di san Giovanni Battista con la sua vista panoramica.
 Luigi era completamente sedotto da quella città, gli sembrava fuori dal tempo, la città delle fiabe remota e dichiarata inesistente da quelli che sanno le cose. E invece eccola lì, sotto i suoi occhi adulti da ragazzino: l’abbraccio eterno di quel fiume specchio magico di luce fresca, le casette di Hansel e Gretel, i castelli sicuramente pieni di fantasmi e fate, le chiese con le guglie dritte puntate senza paura verso il cielo, i giardini silenziosi dove forse di sera tornavano ad abitare le piccole anime di tutti gli gnomi disseminati per la città.
Gli sembrava tutto innocente e luminoso come il  bacio improvviso dato a quella donna e con lei a quella terra di una bellezza commovente.
Si abbracciarono. – Yu’re beautiful likeWroclaw, you’re moving”
“ Wher’re you from?”
“ Salerno, it is like Wroclaw, waterfront, near the sea. My home pressed to the port”
“ Very nice”
“One day  y ou’ill come to see you?”
“ Yes, someday, maybe” sorrise.

Luigi se ne innamorò con la stessa luminosa lentezza dell’olio che scivola denso nell’imbuto.
La scopriva, piano piano, come un regalo a lungo atteso di cui non si vuole rovinare l’involucro.
 Non bastava guardarla, Alina andava esplorata dentro i suoi innumerevoli sguardi, nel sorriso morbido e raro, nella curva dolce del collo, nelle mani magre, nei cambiamenti d’umore irragionevoli come la sua vita sempre altrove, sempre un po’ più in là: - Un giorno andrò...Tra un anno avrò abbastanza denaro per…-
Alina non era piccola era sottile, di una piccolezza proporzionata, resa illusoriamente più grande dal granito dello sguardo.
Si lasciava amare, indulgente verso un gioco che non la coinvolgeva molto. Lei era più simile ad un giocatore di scacchi, teso, sotto l’assedio dell’avversario. Era costantemente alla ricerca di un varco, mentre la vita le urlava contro con la povertà e il suo squallore, la volgarità di certi uomini al bar, il silenzio della sua famiglia smembrata e invisibile.
Era la primogenita di cinque figli. Il padre Michael, era un insegnante polacco che parlava bene l’inglese. A 45anni aveva lasciato la scuola e si era messo a fare il tassista e il private driver per i turisti. Dopo due anni di quel lavoro se n’era andato in Irlanda con una turista intraprendente che lo aveva convinto a seguirla. Si era fatto convincere perché a Michael piacevano i colpi di testa, gli davano più adrenalina del sesso, delle gare di bevute di vodka o di qualunque altra cosa: mollare tutto e rilanciare, partire alla conquista di qualcosa d’inesplorato, ecco cosa lo faceva sentire vivo. Se ne andò.
Scomparve un giorno dopo aver consegnato una lettera ad Alina, dodicenne, raccomandandole di darla alla madre: - E’ per tua madre, dagliela. Ciao. Tieni aperta la porta, ho le mani impegnate”. Dalle valigie. Perché papa’ ha le valigie?
“ Papà dove vai?” Era già in fondo alle scale. L’unica risposta, il portone che si chiudeva.
La madre ricamava sul lino: camicie, centrini, lenzuola, tendaggi. Aveva un negozietto nella città vecchia. La porta del negozio si raggiungeva salendo quattro scalini. Sul primo, era appoggiato un cesto di vimini con dei fiori freschi immersi in un vasetto di vetro. La mamma di Alina li comprava ogni giorno. Poi apriva il suo negozietto e d’estate si metteva sulla porta a ricamare. Si chiamava Pedra ma quel nome non le stava bene, era un nome troppo duro per lei, lei era un filo sottile, intrecciato in infiniti arabeschi di filo colorato sulla stoffa ruvida della vita.
Quando lesse la lettera di Michael non disse nulla. Pioveva quel giorno, Pedra indossò di nuovo l’impermeabile e si diresse verso la porta:- Alina apparecchia, i tuoi fratelli tornano affamati da scuola lo sai- la bambina avrebbe voluto seguirla ma lei era già sulle scale.
La ritrovarono la sera stessa, sulle rive dell’Odra, ci era arrivata volando da un ponte. Il filo si era spezzato.
I fratelli di Alina finirono in Istituto. Alina venne affidata ad una zia materna che lavorava come cameriera in un ristorante, era vedova.
Alina era una terra deserta ora, sopravvissuta ad una geografia familiare cancellata, divorata, estinta.
Si mise a lavorare con la zia: erano due donne sole, con poco denaro e tanta voglia di averne per potersi comprare qualche altro giro sulla giostra della
Erano passati dieci da allora quando Luigi se ne innamorò. Viveva nei confini del suo corpo, si nutriva di lei, la spiava mentre lavorava, la guardava respirare piano mentre di notte dormiva, la schiena nuda illuminata dalla luna.

Fu costretto a partire dopo un mese; lei lo avrebbe raggiunto, erano d’accordo.
La lasciò a malincuore mentre continuava a salutarla dal treno.

Glielo disse al telefono, dopo sei mesi: “ Do not look for more”
“ Non mi cercare più”. Aveva trovato come venire In Italia, un modo, uno dei tanti, ma era una strada che doveva percorrere da sola.
La faceva ridere quell’uomo al bar con tutte quelle balle che le raccontava sull’Italia, descritta come una terra promessa piena di lavoro,soldi, amore. Il loro amore. Alina lo sapeva benissimo cosa l’aspettava, voleva lavorare in proprio però; lo aveva deciso una notte in cui non riusciva a dormire, la zia russava nel letto accanto al suo e l’anta cadente della credenza  così vicina al suo letto le era sembrata oscena, insopportabile. Quell’uomo l’avrebbe traghettata fino all’Eden, a sue spese, poi ci avrebbe pensato lei ad organizzarsi.
Se ne andò come il padre, una sera, all’improvviso, il tempo di una telefonata:
“ Do not look more” , non mi cercare più…
Luigi aveva imparato dal suo bar a vedere le persone entrare, consumare, uscire dalla sua vita. A volte tornavano, altre no.  Se ne fece una ragione. Se ne fece una ragione ma ci pensava, forse, in quelle ore del tramonto.

La zia non provò nemmeno a cercarla o a denunciarne la scomparsa. Tirò dritta per la sua strada come un ladro inseguito dalla polizia, preoccupato di mimetizzarsi tra la folla, di non destare sospetti. Voleva evitare di irritare la vita chiedendole spiegazioni e attrarre così altre sfortune.
Niente eroismi e che ognuno badi a se stesso. Questo pensava , mentre guardava la strada vuota, dalla finestra di quel monolocale sfiancato e logoro di cui non si riusciva ad immaginare un tempo in cui era stato nuovo, imbiancato di fresco, i mobili con il talloncino della fabbrica ancora attaccato, allineati e dritti come abiti con l’etichetta appesa, chiusi nell’armadio per le grandi occasioni.
Alina era arrivata in Italia. Si era mostrata docile e collaborativa per limitare le aggressioni e le violenze, aspettava un’occasione per scappare. L’avevano accoltellata un mese dopo, un cliente squilibrato e fradicio d’alcol, convinto che lei l’avesse derubato.
L’aveva lasciata per strada. Qualcuno aveva chiamato un’ambulanza e se n’era andato.


Luigi partì la sera stessa, a mezzanotte. Risalire su di un treno fu come riprendere a raccontare una storia lasciata a metà: allora… Partì. Non pensava a niente, non temeva niente, non sperava nulla. Andava. Come se fosse l’unica cosa possibile, tollerabile, capace di allentare quella tensione profonda, quell’attesa, che lo aveva colto ogni sera prima di allora, guardando le barche capovolte sulla spiaggia orfane del mare.
Arrivò alle otto del mattino dopo. Un taxi lo condusse da lei.
C’erano dei poliziotti. Fecero un sacco di storie: documenti, domande, perquisizioni.
Quando la vide lo colpirono gli occhi, un po’ rossi ai lati delle palpebre, come quelli dei bambini che hanno appena finito di piangere.
Dormiva. Luigi pensò alla bassa marea che ti restituisce tutto quello che il mare prende, basta essere lì, come in un bar, con la porta aperta tutti i giorni sul mondo.
Si sedette. Non fece nulla. Non parlò. Non la toccò. Voleva solo essere lì al suo risveglio.
Quando si svegliò lo vide lì accanto, stropicciato di stanchezza e di dispiacere; chissà perché pensò allo gnomo lavandaio, un puntino accanto alla vita profonda del fiume, fermo, come una stella del Nord.











Dorotychecorre

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Re:Alina
« Risposta #1 il: Settembre 25, 2012, 14:23:07 »
Bravissima, finalmemnte sei tornata, con questa storia piena di delicatezza, di ricordi e di tragedie, esattamente come la vita. Una speranza però c'è, quella di riprendere un filo interrotto dal destino. :rose:

Quando vedo quelle ragazze, quasi tutte belle, quasi tutte dell'est, quasi tutte nere...le porterei tutte a casa, povere donne fulminate dall'ingiustizia di una vita tracciata da altri. :(

dorotychecorre

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Re:Alina
« Risposta #2 il: Settembre 25, 2012, 22:45:56 »
Grazie di cuore per la tua infinita pazienza, sei una lettrice preziosa.Grazie. Doroty
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Re:Alina
« Risposta #3 il: Settembre 26, 2012, 08:02:26 »
ti vogliamo legere più spesso. :D

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Re:Alina
« Risposta #4 il: Settembre 28, 2012, 15:16:51 »
Cara Doroty, è una scelta letteraria, un caso... ho notato che i titoli dei tuoi racconti sono per la gran parte nomi femminili: Alina, Isabela, Beatrice, Ludovica. C'è un motivo oppure...

dorotychecorre

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Re:Alina
« Risposta #5 il: Settembre 28, 2012, 18:16:11 »
Sono una donna che per tanto tempo è stata etichettata come " un maschiaccio" con tutta la mia sensibilità nascosta ben bene dentro i miei vestiti informi e così via. Poi scrivendo sono diventata coraggiosa, mi sono innamorata del mio essere donna e mi piace esplorare anime femminili perchè ho ancora tanto da scoprire. Grazie per essere passata da qui. Doroty
Dorotychecorre

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Re:Alina
« Risposta #6 il: Settembre 28, 2012, 18:36:45 »
allora ci assomigliamo. :rose:

dorotychecorre

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Re:Alina
« Risposta #7 il: Settembre 28, 2012, 21:25:02 »
Ne sono sicura, ti sento molto vicina e affine. Un caro saluto. Doroty
Dorotychecorre

gipoviani

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Re:Alina
« Risposta #8 il: Settembre 28, 2012, 22:05:11 »
Anche se non son donna, il tuo racconto mi è piaciuto, brava

dorotychecorre

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Re:Alina
« Risposta #9 il: Settembre 29, 2012, 08:53:13 »
Grazie. Non è necessario essere una donna per condividere delle emozioni che sono di tutti anche se il modo di viverle è diverso. Grazie per aver letto il mio racconto.
P.S. E poi, secondo me, il vero protagonista di questa storia è Luigi. Punti di vista... A presto.
« Ultima modifica: Settembre 29, 2012, 14:51:23 da dorotychecorre »
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