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Grazie Polixena per la tua paziente lettura dei miei post.
Il mito ellenico e l’omerica “Iliade” narrano che l’eroe Achille amò Polixena (Polyxene nella lingua greca e Polyxena nella lingua latina), considerata figlia del re Priamo e di Ecuba.
Rimango nell’ambito greco per parlare della filosofia stoica (fondata ad Atene nel 300 a.C. circa da Zenone di Cizio), che reputa l'anima (psyché) una tabula rasa, nella quale confluiscono le informazioni provenienti dagli organi sensoriali.
Le sensazioni confluiscono nell’anima e vi si imprimono, generando nella mente la “rappresentazione” (phantasia), che implica l’approvazione da parte della ragione (logos), la parte razionale dell’anima.
All’anima razionale (psyché logiké) gli stoici assegnano le funzioni conoscitive e morali, ma anche la coordinazione dei movimenti del corpo.
La teoria stoica della conflagrazione presume il ciclico assorbimento dell’anima nel mondo (in latino Anima Mundi): termine filosofico usato dai platonici per indicare la vitalità della natura nella sua totalità.
Platone nel "Timeo" (dialogo cosmologico) fu tra i primi a parlare di “Anima del mondo”, ereditando questo concetto dalla filosofia orfica e da quella pitagorica. Secondo lui il mondo è come un organismo vivente, la cui vitalità gli è data dall’anima mundi, infusagli dal “demiurgo”, che è artefice e padre dell’universo.
Le dottrine del ciclo cosmico o dell'eterno ritorno e di Dio come anima del mondo hanno costituito e ancora costituiscono un costante punto di riferimento delle concezioni cosmologiche e teologiche.
La filosofia stoica ebbe nell’antica Roma numerosi seguaci, fra i quali Marco Tullio Cicerone, Seneca, il filosofo Epitteto e l’imperatore Marco Aurelio Antonino.
In età repubblicana lo stoico Panezio influenzò filosoficamente Marco Tullio Cicerone (106 a.C. – 43 a. C.). Questo oratore nel brano titolato “Sogno di Scipione” (contenuto nel trattato “De re pubblica”, l'ultima parte del sesto libro) espone la sua visione del cosmo, afferma l’immortalità dell’anima, è convinto dell’esistenza di un al di là e di un premio ultraterreno destinato ai grandi uomini politici benefattori della patria e a chi compie le buone azioni.
Il poeta e filosofo Tito Lucrezio Caro (94 a.C. – 50 a.C) fu un seguace dell’epicureismo e come tale considerava la religione la causa dei mali dell’individuo e della sua ignoranza.
Scrisse il poema “De rerum natura” in cui argomenta anche sull’antinomia fra ratio e religio (tra ragione e religione). La ratio, secondo Lucrezio, è una qualità della razionalità, mentre la religio è ottundimento gnoseologico e superstizione (“superstitio”).
Lucrezio nega ogni sorta di creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di tecniche.
Circa il concetto di animus in rapporto a quello di anima nel “De rerum natura” scrisse:
“Vi sono dunque calore e aria vitale nella sostanza stessa del corpo, che abbandona i nostri arti morenti. Perciò, trovata quale sia la natura dell'animo e dell'anima - quasi una parte dell'uomo -, rigetta il nome di armonia, recato ai musicisti già dall'alto Elicona, o che essi hanno forse tratto d'altove e trasferito a una cosa che prima non aveva un suo nome. Tu ascolta le mie parole. Ora affermo che l'anima e l'animo sono tenuti Avvinti tra loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il capo, per così dire, è il pensiero a dominare tutto il corpo: quello che noi denominiamo animo e mente e che ha stabile sede nella zona centrale del petto. Qui palpitano infatti l'angoscia e il timore, qui intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque la mente, l’animo. La restante parte dell’anima, diffusa per tutto il corpo, obbedisce e si muove al volere e all’impulso della mente. Questa da sé sola prende conoscenza, e da sé gioisce, quando nessuna cosa stimola l’anima e il corpo.” (De rerum natura, III, vv. 130-146)
Lucrezio riprende il concetto ellenico di anima come "soffio vitale che vivifica ed anima il corpo, ciò che i greci chiamavano psyché. Questo soffio pervade tutto il corpo in ogni sua parte e lo abbandona solo “con l’ultimo respiro". L’"animus" invece è identificabile col "noùs" ellenico, traducibile in latino con mens. Dunque animus e mens paiono essere o la stessa cosa o due elementi coniugati dell’unità mentale. L’indicazione della “zona centrale del petto” come sede fa pensare al concetto di “cuore”, ricorrente ancora oggi nel linguaggio comune per indicare la sensibilità umana, centro dell’emozione e del sentimento.
Quindi “animus” come conoscenza ed “anima” come soffio vitale nell’individuo.
Nel I libro del “De rerum natura” (112 – 116) scrisse: “S’ignora quale sia la natura dell’ anima, se sia nata o al contrario s’insinui nei nascenti, se perisca con noi disgregata dalla morte, o vada a vedere le tenebre dell’Orco (Ade) e gli immani abissi o per volere divino s’insinui in animali d’altra specie.”
In epoca imperiale la stoà (termine dell’ antica architettura greca, usato anche per indicare la filosofia stoica) vive la sua ultima stagione con Seneca, Epitteto e l’imperatore Marco Aurelio.
Lucio Anneo Seneca (4 a. C. – 65 d. C.) giunse ad istanze spiritualistiche ispirate dalla religiosità: Dio è l’immanente, è Provvidenza, è l’intrinseca Ragione che plasma la materia, è la Natura, il Fato.
Seneca sottolinea il dualismo tra anima e corpo. Il corpo è peso, è carcere dell’anima. Per lui la “conscientia” è forza spirituale e morale, fondamentale nell’individuo. La coscienza fa distinguere il bene dal male.
Nel filosofo Epitteto (50 d. C. – 120 d. C.) c’è il sentimento dell'interiorità e quello religioso impressi da Seneca allo stoicismo.
Per Epitteto Dio è padre dell’umanità. Egli è dentro di noi. La vita è un dono di Dio ed è un dovere ubbidire al precetto divino. Dio è provvidenza, che si cura non solo delle cose in generale, ma di ciascuno di noi in particolare. La libertà coincide col sottomettersi al “volere di Dio”.
Epitteto ritiene che l'anima sia un frammento divino, di conseguenza l'uomo è portatore, custode di un Dio. In questo modo ci rende fraterni gli uni agli altri.
Ammiratore di Epitteto fu l’“imperatore-filosofo stoico Marco Aurelio Antonino (121 – 180 d.C.), autore dei “Colloqui con se stesso”, opera letteraria in XII libri con ricordi e riflessioni. Una delle caratteristiche del suo pensiero è l’insistenza sulla caducità delle cose.
Come in Seneca, per Marco Aurelio l'anima è distinta e separata dal corpo ma essa è composta dall'anima intesa come spirito (pneuma, soffio vitale) e dall' anima razionale, l’intelletto.
Per questo imperatore sono tre i principi costitutivi dell’individuo: il corpo, che è carne; l’anima, che è soffio o pneuma; l’intelletto o mente (nous) che è superiore all’anima.
Anche in Marco Aurelio la religiosità va molto più in là di quello della vecchia Stoà. Per lui era importante rendere grazie agli dei ed avere sempre nella mente Dio.
Dopo Marco Aurelio, lo stoicismo iniziò il suo declino, e nel III secolo scomparve come corrente filosofica autonoma.