Era il luogo più arido e isolato che io conoscessi. La distesa di terra grigia, solcata da crepe in cui un sole implacabile e un caldo assoluto infilavano lunghe dita, era interrotta qua e là da pochi alberi e poveri sterpi tra cui a stento riuscivi a distinguere grossi grilli terrosi, preistorici, tetri.
Grandissima era la meraviglia vedendoli spiccare un salto: allora ali grandissime e colori magnifici squarciavano tutto quel grigio. Non ho mai più rivisto insetti così belli.
La masseria era enorme e, per la più parte, diroccata. Un fossato la circondava quasi tutta, assolutamente privo dell’acqua che il suo costruttore forse si era augurato contenesse. Alte finestre di ferro battuto interrompevano la facciata semplice e severa.
Bellissima la corte, il baglio. L’acciottolato era interrotto da una pavimentazione a croce di lastroni di pietra e sulla parete di fondo un piccolo pozzo che non vide mai una stilla d’acqua.
Ci passavamo le estati, da sole coi nonni e una scarsissima corte di visitatori, graditissimi in quell’isolamento.
Carmelo, il pastore, poverissimo, umile, di un’educazione innata e atavica ci chiamava “signorine”: non avevamo dieci anni!
A volte ci era permesso di visitare l’ovile dove, con garbo e infinita pazienza ci spiegava come preparava una delicatissima ricotta di pecora.
Il tempo e lo spazio erano dilatati, ci coprivano come una coltre, immobili.
Ho imparato allora a convivere con una noia e una pazienza senza fine. Non avrei mai pensato di doverle mettere a frutto tutte nel mio tempo a venire