Paolino dopo la guerra aveva trovato un impiego presso una fabbrica, e la mattina veniva prelevato da uno “scioffur”1 e riportato a casa dopo il lavoro. Avevano due figli, Ciccio e Giovanna, e da quest’ultima Grazia fu scelta in seguito come madrina di cresima per la simpatia che ispirava.
Una sera mentre erano in conversazione, sentendo bussare alla porta fu mandata Graziella a vedere chi fosse. Si presentò un giovane che chiedendo se per caso c’era lì con loro la sorella e il cognato, spiegò che ritornando prima dal lavoro desiderava la chiave di casa per andarsi a riposare. Graziella fino ad allora sconosceva il fatto che Marietta avesse un fratello, ma ne ebbe in seguito conferma dalla stessa che presentò a tutti Angelo come suo fratello minore.
Da quel momento anche il signor Angelo ebbe accesso in casa delle due donne, fino a quando una sera nessuno dei tre si presentò come era ormai consuetudine. Graziella ritornando dal lavoro e non vedendo nessuno, chiese alla madre spiegazioni, quest’ultima tra il serio e il faceto le rispose dicendo: ppo signò Angelu tu parri troppu e ti potti a testa.2 Grazia si contrariò tanto e minacciò che se in futuro costui avesse messo piede in casa loro, lei stessa avrebbe provveduto a buttarlo fuori per le spalle.
L’indomani ricevettero la visita di zia Grazia, la quale rivolgendosi alla nipote, le chiese se poteva accompagnarla fino alla merceria. Durante il percorso fino alla bottega la zia cominciò a domandare alla nipote pareri spassionati sul signor Angelo e Grazia - mi pari un bravu giovini3 - e la zia dopo un lungo giro di parole finalmente le rivelò la vera natura dei loro discorsi: Angelo chiedeva il fidanzamento e attendeva una risposta. Grazia presa alla sprovvista riuscì soltanto a dire: su vuatri ritiniti ca è bravu giovini, ca un domani maritati non mi mattratta, ppi mia sta beni.4
Non ci fu una festa di fidanzamento, i due giovani infatti erano orfani di padre e si preferì che tutto si svolgesse nel silenzio e nella semplicità.
Angelo si presentò in casa della fidanzata la sera stessa, con imbarazzo ma con felicità trascorsero quelle poche ore come tutte le altre che si erano succedute nel tempo.
Marietta e Paolino non andarono più con la stessa frequenza in casa delle due donne, preferivano dar spazio ai giovani, e ora che le cose erano cambiate ci voleva più delicatezza.
Angelo di lì a due anni si impegnò a raccogliere i soldi per la “mobilia”, pregando la zia Grazia di conservarli così da evitare anche la spesa più banale.
Le sere trascorrevano serenamente, i due giovani felici anche solo di potersi scambiare lo sguardo, sedevano ai lati di mamma Maria, la quale severa quanto mai, non permetteva loro nemmeno un minuto per stare da soli, e quando aveva necessità di assentarsi, bastava uno sguardo perché la figlia comprendendo la dovesse seguire senza fiatare.
Il momento tanto atteso era quando Angelo prendendo congedo dalle due donne, essendo giunta l’ora, aveva il permesso di farsi accompagnare alla porta dalla sua amata, allora dovevano fare in fretta a salutarsi perché donna Maria di là dalla stanza con le orecchie tese stava attenta ai rumori aspettando soltanto la chiusura do purteddu,5 e se si indugiava era pronta a intervenire dicendo: ancora? Tuttu stu tempu ci voli ppi salutarivi?6
Fu proprio in una di queste occasioni che Graziella e Angelo scoprirono in un angolo dell’imposta un piccolo pezzo di vetro mancante, immediatamente ebbero l’idea di accostarsi l’una dall’interno l’altro dall’esterno al vuoto creatosi, e con grande gioia poterono sentire il contatto delle loro nude labbra e il leggero sfiorarsi.
Da quel giorno in poi presero l’abitudine di contare tutti i loro baci, e se Grazia indugiava, alle rimostranze della madre, esordiva dicendo: staiu aspittannu ca Angilu trasi na so casa!7
Intanto Grazia provvedeva a cucire i vestiti che avrebbe poi portato con sé dopo le nozze, non mancando di cucire il vestito per la cerimonia in municipio e quello che avrebbe dovuto indossare per il ballo della sera, mentre dalle riviste messe a disposizione dalla zia Ciccia scelse il suo abito bianco, abito che le fu confezionato dalla stessa zia come regalo per il suo matrimonio.
La data delle nozze fissata per il 26 Aprile finalmente arrivò.
Era l’anno 1928, Graziella aveva compiuti appena 18 anni, Angelo ne aveva 25.
I preparativi in casa di zia Grazia avevano già avuto inizio la sera prima, infatti era stato interpellato uno zio cuoco esperto nell’arte culinaria perché a servizio presso una baronessa, a lui fu messa a disposizione la cucina, mentre il salone fu scelto per il pranzo di nozze.
Mamma Maria in mezzo a tutto il trambusto trovò comunque un momento tranquillo per parlare alla figlia della futura condizione di donna sposata alla quale sarebbe andata incontro, e per questo scelse parole molto semplici, che pronunciò velando a malapena il proprio imbarazzo e il rossore che frattanto le era comparso sulle guance: Finora viristi Angilu vistutu, appoi t’abitui a virillu cche mutanni.8
Note:
1 Francesismo, sta per autista
2 Per il signor Angelo tu parli troppo e ti porti la testa
3 Mi sembra un bravo giovane
4 Se voi ritenete che è un bravo giovane, che all'indomani sposati non mi maltratterà, per me sta bene.
5 Del portone
6 Ancora? Tutto questo tempo ci vuole per salutarvi?
7 Sto aspettando che Angelo entra a casa sua!
8 Fino ad ora hai visto Angelo vestito, poi ti abituerai a vederlo con le mutande.
Grazia era ricoverata in una casa di riposo, viveva chiusa in una stanzetta arredata con un semplice letto, un comodino e un armadio. Lei aspettava con ansia il giorno in cui mi avrebbe vista ed io il momento in cui sedendomi accanto a lei avrei ascoltato il racconto della sua vita, anche quella più intima e profonda, che forse non avrei mai scoperto se non fossi diventata soprattutto un’amica.
Ogni giovedì per cinque anni un piccolo pezzetto del suo mondo prendeva corpo e si animava dentro di me, come in un film rivedevo la sua vita passata dalla nascita all’adolescenza, al fidanzamento e matrimonio, i costumi e le usanze di un tempo per il quale mi scoprivo nostalgica per non averlo vissuto.
Riuscivo a sentire l’odore del cibo che tante volte aveva preparato, la leggerezza delle stoffe che tante volte aveva cucito. Riuscivo a vedere con i suoi occhi e sentire con le sue orecchie, e ancora a toccare con le sue mani e odorare con le sue narici.
Osservavo il suo mondo dall’interno e osservandolo mi scoprivo viverlo con lei, soffrivo delle sue sofferenze e dei suoi dolori e gioivo delle sue gioie, io vivendole per la prima volta e lei rivivendole insieme con me.
Quando i suoi occhi si chiusero per sempre e il suo cuore cessò di battere, davanti a me danzava un mondo che da allora, immutato, ha continuato a vivere.
Catania, gennaio 1996