Dopo anni di battaglie, di scioperi e di manifestazioni condotte per lo più sotto le bandiere comuniste e cheguevariane, dopo un paio di attentati di matrice anarcoide, finalmente l’Università di Napoli acconsentì a sborsare dei soldi per permettere agli studenti di avere una sala computer e di poter frequentare due corsi extra scolastici di cinema e di teatro. Io, fortunatamente, arrivai quando la situazione era già chiarita e sistemata e la mia unica difficoltà fu di dover scegliere tra l’uno e l’altro corso.
Alla fine optai per il teatro perchè da sempre lo amavo ed ero uno di quelli che credeva davvero alla sua magia. Per di più adoravo i tragici greci Eschilo, Sofocle ed Euripide; ero un fervente lettore di Brecht, Shakespeare e Moliere; senza contare gli autori napoletani da me venerati come il grande Eduardo, Annibale Ruccello ed Enzo Moscato ma, detto sinceramente, il mio vero idolo era quel pazzo scatenato di Carmelo Bene.
Il nostro maestro di corso, Rodolfo Lapiglia, era una persona davvero simpatica e ci lasciò la massima libertà per quanto riguardava lo spettacolo da mettere in scena; però era intransigente sul fatto che dovevamo esercitarci molto a provare dei sentimenti e a fare le facce davanti allo specchio. Mi è rimasta impressa una cosa e cioè che per provare la tristezza ci consigliò di immaginare che i nostri cari morissero. Trovandoci a Napoli potete ben immaginare quante grattate ai maroni ci siano state. Siccome pensare ste cose lugubri mi ripugnava io per provare tristezza pensavo al 5 maggio, quando l’Inter perse lo scudetto all’ultima giornata. Alla chiusura delle iscrizioni ci ritrovammo in ventuno ragazzi e porca paletta manco una donna! Avevano scelto tutte il cinema, le smorfiose, e magari qualcuna ci credeva davvero al sogno di fare la velina. Senza che ne avessi fatto richiesta mi elessero come sceneggiatore dello spettacolo perchè tutti sapevano che a scrivere me la cavicchiavo. Io, per parte mia, era da tempo che avevo scritto un piccolo soggetto che, dato il pubblico pressochè studentesco che avremmo avuto, sarebbe andato proprio bene. In pratica era una messinscena della storia della filosofia greca la quale, abbondando di strani personaggi e di tanti aneddoti ben si prestava a essere portata sul palcoscenico. L’unico contemporaneo che intendevo far intervenire era Nietzsche che sarebbe entrato con una camicia di forza, i capelli arruffati e degli enormi baffoni dicendo cose incomprensibili. Oltre a Talete che pasticciava con un secchio d’acqua, Anassimandro che delirava dell’aiperon e Anassimene che balbettava senza che si capisse niente, c’era anche il mitico Eraclito con una bella barba nera incazzato come una iena senza che si riuscisse a saperne il perchè, c’era Pitagora avvolto in un grande mantello nero che metteva in guardia dal mangiare fave, c’era Socrate che parlava di continuo strillando ad ogni piè sospinto CONOSCI TE STESSO con gli altri che a un certo punto lo prendevano a calci, ma lui continuava a parlare, c’era Epicuro che sprezzante e ironico se ne fotteva altamente sia degli dèi che della morte. Per me mi ero riservato il ruolo da protagonista ovvero l’insuperabile Diogene di Sinope detto il Cinico, un tipo che rifiutò di avere qualsiasi proprietà e ricchezza, che viveva in una piccola vasca aperta appartenente al tempio di Cibele, che distrusse l’unica cosa che possedeva (una ciotola di legno), perchè guardando un bambino bere alla fontana disse che poteva benissimo bere con le mani, che defecava dove capitava, che si masturbava in pubblico semi sdraiato su delle scale, che aborriva la società e la famiglia e che quando Alessandro Magno gli chiese se mai avesse potuto esaudire qualche suo desiderio rispose di non frapporsi tra lui e il sole. Un grande, veramente un grande. Per aiutarmi a caratterizzare bene i filosofi e a scegliere gli aneddoti che mi avrebbero fatto da guida nel comporre il canovaccio mi servivo della famosa Vite dei filosofi di Diogene Laerzio.
Provammo per vari mesi e che fossimo tutti ragazzi all’inizio ci infastidiva, ma poi andò tutto liscio fino alla sera della prova generale quando successe il fattaccio. Precedute da fischi e slogan entrarono in teatro una cinquantina di ragazze circa, un corteo a tutti gli effetti con tanto di striscione contro il teatro sessista. A capo delle rivoltose c’era la famigerata Marta, una pasionaria tristemente celebre in tutto l’Ateneo per essere riuscita a far cambiare la marca del burro alla mensa. Scesi dal palco per andare a sentire cos’è che avesse da dire.
“Marta si può sapere che succede? Dobbiamo provare, tra pochi giorni c’è lo spettacolo!”
“Lo so benissimo, caro LeD, ma non credo che andrete in scena.”
“E perchè mai?”
“Ah, cioè a te sembra normale che una compagnia teatrale sia composta da soli uomini? Che in uno spettacolo non ci sia neanche una ragazza? Siete dei maschilisti!”
“Marta, ma quali maschilisti? Le iscrizioni erano aperte a tutti, son le ragazze a non essersi presentate!”
“Non è vero. Sei tu che non le hai volute per portare in scena i tuoi filosofi finocchi umiliandoci ancora di più perchè con il tuo spettacolo fai sottintendere che le donne non sanno pensare e che la filosofia è un affare per soli uomini.”
“È falso! E poi non è colpa mia se nella filosofia antica e nel testo di Diogene non ci sono donne.”
“Ti rendi conto che è una cosa impossibile? Di donne ce ne saranno state certamente, sei tu che hai fatto opera di censura! O trovi un personaggio femminile e lo interpreto io o ti blocco lo show.”
Uhm, la situazione si faceva pesante perchè ben sapevo quanto fosse coriacea Marta. Pensando e ripensando in quei pochi attimi di tregua, mi venne un’idea. “Va bene Marta, hai vinto. C’è una donna citata da Diogene Laerzio, Leonzia. Se ti va ti farò interpretare la parte di Leonzia.”
“E chi sarebbe sta Leonzia? Una pitagorica, una stoica, una scettica?”
“No. Era la puttana di Epicuro.”