Beatrice
Beatrice sonnecchiava mentre l’oratore continuava a cantilenare la sua soporifera sapienza. “E’ un uomo attraente” pensò, tanto per dare ai suoi occhi un valido motivo per rimanere aperti.
“ La cultura Maya, a differenza di quella Azteca…”, non era tanto quello che diceva a non essere interessante ma quella sua fissità da psicofarmaco, da lifting estremo, quell’umettarsi le labbra fuori tempo, nel bel mezzo della frase, che provocava una rovinosa caduta massi delle sue parole, un avvitamento del senso, un punto e a capo sfiancante senza nemmeno l’oasi dei tre puntini: Basta. Me ne vado.
Beatrice se ne andò, senza riuscire a non farsi notare. Ecco una cosa che proprio non le riusciva: passare inosservata.
Era maldestra, continuamente in rotta di collisione con persone, oggetti, animali e perfino con se stessa. Forse per questo aveva scelto di diventare archeologa
“Mi trovo più a mio agio con i morti che con i vivi” continuava a ripetere, suscitando un’ilarità che non finiva mai di stupirla:
Che ho detto di tanto divertente? si chiedeva. Lei era così e il mondo continuava a franarle addosso senza chiederle scusa, anzi, ostinandosi a ripeterle: “E stia un po’ più attenta.”
Beatrice se ne tornò a casa. Aveva ancora dieci giorni di ferie da dover vivere con i vivi prima di poter tornare ai suoi scavi, nei suoi mondi sotterranei, dove poteva finalmente rallentare e trovare il suo vero ritmo, quel “ maneggiare con cura” più adatto alla sua sensibilità assorta, visionaria.
Era entrata da poco in casa, una casa enorme dove la sua goffaggine la smetteva finalmente d’inciampare, quando sentì bussare alla porta. Strano, non aspettava visite. Aprì sbadatamente, senza chiedere chi fosse, era curiosa: chi poteva essere a quell’ora?
Cloe era alta 1,20 circa, aveva i capelli rossi, lunghi fino alla cintola dei suoi jeans con le toppe ricamate, le mani a riposo nelle tasche del pullover blu con il cappuccio.
“Mia madre non risponde, posso guardare dal suo balcone se per caso è fuori a stendere i panni?”
Beatrice la guardava come se fosse il fantasma di Ramses II.
“Allora, posso?”
“Certo, certo” e finalmente si spostò per farla entrare.
Proprio in quel momento due carabinieri uscirono dall’ascensore accompagnati da Albino.
“Sei qui Cloe? Questi due signori ti devono parlare” sorrideva Albino, senza riuscire a dissimulare la sua preoccupazione: era chiaramente sconvolto.
La bambina non si mosse. Beatrice continuava ad urtare contro lo stipite della porta nel tentativo di guadagnare qualche centimetro di pianerottolo alla sua visuale. Sarebbero potuti rimanere così per sempre se non fosse intervenuto il portiere:
“Signora Beatrice permettete che entriamo un momento? Non sono cose da dirsi sul pianerottolo”. Sorrideva bonario ma ormai era chiaro a tutti che quel giorno, quel tempo, non era più un tempo qualunque.
Entrarono in casa. Si accomodarono nell’ampio salone abbracciato da una libreria che costeggiava completamente il muro sia in altezza che in lunghezza: un’opulenza letteraria avvolgente. Scorreva una cascata di parole, silenziosamente, ininterrottamente, da quella parete a terrazze, mentre piccole grotte naturali, dove il fruscio di quell’acqua forse arrivava un pò più smorzato, accudivano antiche creature di carta.
I carabinieri capirono improvvisamente di trovarsi a casa di un’intellettuale, una scrittrice forse. Si aggiustarono istintivamente il colletto della camicia con il pollice e l’indice a pinza, sollevandosi leggermente sulle punte, quasi all’unisono.
Beatrice e Cloe sedettero sul divano rosso e i carabinieri sulle due poltrone di fronte. Albino preferì una sedia: sudava. Eppure era ottobre, un bell’autunno ambra, bronzo, carminio, oro, stava vivendo silenzioso oltre la finestra chiusa su quell’insolita riunione.
Dal racconto dei due carabinieri gli altri tre appreso qualcosa che li riguardava.
Cloe apprese che non avrebbe rivisto la madre per almeno dieci giorni.
Albino apprese che la signora in questione era scivolata, quella mattina stessa mentre si recava al lavoro, sul suo bell’androne lucido. Zoppicando, si era trascinata al suo lavoro di colf poco distante, ma una volta lì, era stata immediatamente accompagnata all’ospedale. Frattura multipla, tibia e perone.
Beatrice apprese che la bambina non aveva parenti o amici a cui poter essere affidata durante la degenza della madre: sembrava impossibile ma la signora stessa aveva indicato proprio lei come unica possibile baby-sitter temporanea.
La donna, argentina, vedova di un uomo a cui Cloe doveva il colore dei capelli, viveva in Italia da sola, niente parenti, pochi amici. Se Beatrice rifiutava bisognava avvisare i servizi sociali.
Tutti, alla fine di quel breve ordinato resoconto, in un silenzio affollato di parole, guardarono Beatrice.
Albino la supplicò in silenzio di accettare e liberarsi al più presto dei carabinieri. Quella faccenda delle due gocce di cera sull’androne scottava sulla sua coscienza come un pollo sullo spiedo.
Cloe la supplicò in silenzio di accettare. Non voleva che fossero avvisati i servizi sociali, non sapeva nemmeno cosa fossero per la verità, ma la madre le aveva insegnato a non andare con gli estranei e i servizi sociali rientravano in quella categoria.
I carabinieri la supplicarono in silenzio di accettare. Era quasi ora di pranzo dopo tutto, perché complicarsi la vita con tante inutili scartoffie.
Insomma, nel rovescio di quel silenzio si era acceso un tifo da stadio, un clamore di piazze, uno strepito da fan di rock-star: tutti pazzi per Beatrice.
Beatrice si alzò. La ruggine primaverile splendeva sulle foglie umide del platano: pioveva silenziosamente.
Voleva dire di no ma finì col dire qualcosa che sembrava si.
I giorni che seguirono furono più semplici del previsto, la presenza di Cloe era solo una leggera increspatura sull’acqua della vita solitaria di Beatrice.
Cloe governava la sua vita di dodicenne con autorevolezza: il tempo, l’igiene personale, i compiti, la strada per andare e tornare da scuola, apparecchiare, sparecchiare, i panni sporchi, le visite alla madre, persino stirare e lavare i piatti avrebbe potuto fare da sola ma la governante di Beatrice non lo avrebbe mai permesso. Cloe allora le faceva compagnia, solo lei la capiva perché parlava spagnolo.
Cloe era una presenza leggera, una foglia autunnale luminosa dopo la pioggia, salda come quel vecchio ultimo platano.
Una sera Beatrice stava leggendo, mentre la bambina faceva i compiti seduta dietro l’enorme tavolo barocco situato al centro dell’ampio salone.
Beatrice sollevò lo sguardo dal suo libro e vide che Cloe, assorta, stava cercando qualcosa su di un vecchio vocabolario senza copertina.
Si ritrovò all’improvviso lei, dietro quel tavolo, a otto anni, a fare i compiti sotto la guida del padre.
La stanza avvolta dalla nicotina e il catrame bruciato. La bocca di fuoco dell’ eterna sigaretta del padre le si parò davanti agli occhi con la solita audacia disgustosa. Mellifluo fumo, voce melliflua, apparentemente bonaria ma insolente, apparente amore nell’insolenza delle mani, audaci, oscene.
Fittizio padre, invisibile orco. Le foglie cadevano, gocce silenziose, anche quel pomeriggio d’autunno.
Beatrice piangeva con il libro aperto sulle ginocchia, ancora sospesa tra due vite.
Cloe se ne accorse per caso, così, forse sollevando un attimo la testa o forse il dolore emette qualche suono sommesso, ma insomma, la vide. Corse ad abbracciarla.
Mangiarono la pizza quella sera e bevvero anche la birra, tanto il giorno dopo era domenica. Dovevano solo andare all’ospedale a prendere Isabela, la mamma di Cloe: tornava a casa.
PRIMAVERA
Non la smettevano più di discutere sul colore da dare alla parete.
Gli operai avevano appena finito di smontare la libreria, erano visibilmente esausti.
Vinse Cloe, come al solito: la mura bianche e il soffitto rosa. Il divano rosso e quell’enorme tavolo barocco arrogante sembrarono di un altro mondo adesso, niente a che vedere con quel cielo rosa appena immaginato.
Era il dieci marzo, avevano dieci giorni di tempo, Cloe compiva tredici anni il venti di quel mese, stavano preparando la festa di compleanno.
Dopo la festa, Beatrice mise sulla scrivania nuova quella foto regalo di Cloe:era un fiore di loto bianchissimo che emergeva da uno stagno fangoso.