Capitan Libeccio e Rosaspina
Quando Nedo ricevette in regalo da un amico Capitan Libeccio e Rosaspina, l’ultima cosa che gli venne in mente, fu di comprare una gabbietta, per la quale comunque non aveva i soldi.
Aveva solo pensato a come sarebbero stati contenti i figli ad avere due pappagallini.
Portati a casa e levati dalla scatoletta di carta forata per farli respirare, l’unica cosa da fare era lasciarli liberi per casa.
Il tempo passava, ma Capitan Libeccio e Rosaspina non sentivano per nulla la mancanza di una gabbia. Si erano infatti adattati benissimo a stare sui tubi dell’acqua che passavano sul muro, appena sotto il soffitto percorrendo il perimetro della cucina.
Da quella postazione sorvegliavano il mondo sottostante e partecipavano con i loro versi ai rumori della stanza.
La casa però era vecchia e la finestra lasciava passare molti spifferi, così un bel giorno Capitan Libeccio, invece dei soliti versetti, se ne uscì con una specie di pernacchia.
Tutta la famiglia si guardò costernata. Cosa era accaduto al loro beniamino?
Già perché quella famiglia aveva una dote: chiunque ne facesse parte, riceveva attenzioni e considerazione a pari merito.
Nonna Orsola, che aveva avuto a suo tempo un pollaio ben fornito, ritenendosi l’unica conoscitrice delle malattie dei pennuti, decretò che il pappagallo aveva l’influenza. E poiché l’influenza è uguale per tutti, decise di dargli un poco di caffè e un’aspirina.
In pratica gli dette due gocce di caffè con una grattatina d’aspirina, poi lo avvolse in una sciarpa celeste, aprì lo sportello del forno della stufa economica accesa al minino e lo appoggiò delicatamente sullo stesso, non potendo metterlo a letto al calduccio, come avrebbe fatto con un nipote.
Alla quinta volta però che Cesarina, la bimba piccola, ci picchiò contro con le sue gambette, lo sportello venne chiuso malamente e il pappagallino finì nel forno. Passò un poco di tempo prima che nonna Orsola mentre rammendava, realizzasse che aveva un “qualcosa” in sospeso e si ricordasse cos’era.
Si precipitò costernata a levare dal forno il Capitano, con la sensazione di aver fatto al forno un nipote e quasi urlava per la disperazione. Invece il Capitano, forse perché protetto dalla sciarpa, aveva solo fatto una bella sudata e da quel giorno stette benissimo.
Quando venne la primavera, le finestre della cucina iniziarono a rimanere aperte e i due sposini, lui blu mare, lei gialla sole, presero la via del cielo.
O meglio del pino. Infatti davanti alla finestra meditava da anni un magnifico pino, su cui loro amavano passare le giornate. A sera, tornavano in cucina.
Più della libertà evidentemente amavano il cibo e la compagnia.
Tutto filò liscio fino quando a Capitan Libeccio venne un sussulto primaverile a base di ormoni. Si vedevano allora i due pennuti, alloggiati sempre sul tubo dell’acqua, stare vicini vicini. Lui le si strusciava addosso e le dava bacini, lei faceva due passi più in là per scostarsi; lui le si riavvicinava e lei si riallontanava. Evidentemente le loro primavere non erano sincronizzate. Il tutto era condito da gorgheggi erotici, cui lei proprio non faceva caso.
Si assistette allora ad un fatto incredibile: Capitan Libeccio, sempre più esasperato dalla assoluta mancanza di collaborazione di Rosaspina, parlò.
Parlò in modo molto espressivo, per non dire colorito; per non dire che in definitiva bestemmiò. Forse aveva appreso l’espressione da nonno Dante, che tra un bicchiere di vino e un sigaro, arricciandosi con due dita i baffi, commentava i fatti del giorno con una bestemmia.
Capitano Libeccio dimostrò quindi di aver capito benissimo che l’espressione di nonno Dante andava usata in circostanze spiacevoli, e all’ennesimo rifiuto di Rosaspina, alzò una zampetta afferrò un’ala della sposa e strattonandola con rabbia, esplose in un ****, che fece rimanere tutti allibiti e che preferiamo non ripetere.
La finestra era aperta , il Capitano abbandonò la moglie e s’involò alla ricerca di soddisfazioni extraconiugali.
Sarà stata la delusione, sarà stata la rabbia, fatto sta che il volo fu estremamente breve e finì nel giardino della casa accanto, dove a volte passeggiava una signora.
Si chiamava Rosetta ed era stata in campo di concentramento poiché aveva avuto l’onore di nascere ebrea. Questa signora, dopo simile esperienza, era tornata a casa solo con il corpo, la sua mente si era persa chissà dove, in chissà quali disperazioni.
La si vedeva passeggiare nel giardino; ogni tanto rimaneva immobile a guardare gli alberi, ma nessuno sapeva cosa pensasse. A volte qualcuno la trovava a vagare per strada, quando sfuggiva all’attenzione del marito, e allora la riportava a casa. Era un poco “la signora” di tutta la via.
Il giorno che Capitan Libeccio divorziò da Rosaspina, Rosetta stava in giardino e guardava il mandorlo in fiore, piccola nuvola rosa bianca nei suoi pensieri. Il Capitano, non avvezzo a lunghi viaggi, scelse di atterrare tra le mani della signora.
Sembrò che la donna s’illuminasse; stupita, teneva le mani, quasi giunte, intorno a quel vivo e tiepido essere vivente. Sollevando il volto al cielo iniziò a balbettare…”sono San Francesco…” e la sua felicità era così miracolosa e totale, che il marito ebbe quasi paura.
Il volto disteso, sorridente, era colmo della santità di San Francesco.
Fu così che Capitan Libeccio perse la libertà, e Rosetta ritrovò quel poco di pensiero che era rimasto sprofondato sotto gli strati della sua tragedia.
Nonna Orsola con gran sensibilità, dopo qualche giorno, le portò Rosaspina, dicendo che l’aveva trovata, forse fuggita da qualche gabbia, e le pareva giusto che San Francesco si prendesse cura anche di lei.
La signora Rosetta non assomigliava molto al Santo; era piccola, grassottella, lenta nei movimenti, ma aveva degli incredibili capelli così biondi e luminosi da ricordare una splendida aureola.