La mattinata non si preannunciava diversa dalle altre. Lo sguardo sospeso nel nulla, due grandi ruote a sostenere il mio corpo e l'attesa per i soliti controlli. E, soprattutto, la rassegnazione ad accettare tutto quello che di incolore la vita continuava a concedermi, compreso il camice inamidato dell'infermiera che, di lì a poco, mi avrebbe parcheggiato dinanzi a coloro che dovevano esaminarmi.
Sopra la mia testa, intanto, un coacervo di pensieri vorticava disordinatamente per ricadere su individui distanti che, ricurvi sui loro ragionamenti di vita, sulle loro paure e speranze sopravvissute, affollavano la sala grigia e disadorna. Non era la prima volta che mi ritrovavo in ambienti brulicanti di presenze umane, esistenze anonime che mi travolgevano con tutto quello che si portavano addosso. Un peso terribile, avvertito con sempre maggior intensità. In quel mare di anime e corpi dentro il quale nessuna ancora di salvataggio era in dotazione alla mia nave, passava inosservato il mio tentativo di rimanere a galla. Gli uomini: l'emblema della mia solitudine, compagna di vita nel deserto della mia totale impotenza.
D'un tratto, però, qualcuno si avvicinò. Non abbastanza da oltrepassare la distanza che separa due individui che non intendono sfiorarsi. Se avesse cambiato posizione non avrei potuto notare due occhi neri che mi puntavano con espressione attonita e che assumevano, man mano, un cipiglio indagatore. Piantata dinanzi a me, quella figura di uomo, esile come il ramo di un salice, occupava perfettamente l'area in cui la mia visuale poteva interamente abbracciarla.
Mi fissava senza alcuna ritegno, con l'apparente obiettivo di mettere a nudo il mio pensiero.
Una vampata di rossore bruciò il mio viso alimentando la mia impressione che qualcuno, per la prima volta, mi guardava con interesse. Di una cosa era certa. Quegli occhi annullarono di colpo il disincanto tante volte provato tra folle anonime, indifferenti, incapaci di evocare in me un qualsiasi afflato emotivo.
Era accaduto già tante volte: sconosciuti mi giravano intorno incuriositi e attratti dall'imperfezione che faceva di me una creatura strana, immeritevole. Un essere al quale concedere poche attenzioni, da dimenticare.
Quegli occhi scuri, adesso, avrebbero potuto disorientarmi nella giungla umana viziata dal mio handicap. Si insinuavano nel mio spazio inesplorato, con la libertà e la leggerezza di una falena, distanti da ogni visuale terrena.
Il tizio aveva inclinato la testa e senza sentirsi sconfitto dal vuoto che mi circondava, aveva incontrato il mio sguardo fisso, immobile. E lo aveva fatto senza pudore, superando qualsiasi inibizione.
Gli occhi miei! Occhi senza sipario, teatro del nulla, appesantiti dal vuoto con il quale, ormai, convivevo. Per la prima volta potevo vederli, riflessi nei suoi.
Incredibile! Qualcosa stava accadendo! L'abisso che fino a quell'istante mi aveva separato dalle altrui presenze, si era trasformato in uno spazio ridotto, limitato, superabile dal salto azzardato di quell'essere impavido.
Un'altra ondata di calore si sprigionò, stavolta, da tutto il mio corpo inerme. Ero fuoco che scioglie il gelo. Si scaldarono le mie speranze ormai deboli, lontane. I pensieri che ogni giorno mi portavano per mano, nutrendo le mie paure, si andavano trasformando in fantasmi innocui sotto lo sguardo caparbio di quell'individuo.
D'un tratto, però, lo sconosciuto eruppe in un improvviso pianto senza alcun apparente motivo. Le lacrime rigavano le gote acerbe e, man mano che scendevano, si alimentavano come l'acqua di un torrente che accoglie le piogge ottobrine. Tanto violento diventava il suo pianto quanto più forte era l'angoscia, il senso di impotenza che gonfiava il mio cuore.
Come era possibile? Quell'anima dall'indole generosa, capace di resuscitare le mie emozioni, era scivolata nel baratro della mia solitudine senza che il mondo, indifferente, accorresse in suo aiuto.
- Uomini dal cuore crudele, perché non aiutate questa creatura? - urlai forte senza che le parole si materializzassero in suono. Immobile, paralizzata da un destino implacabile, sentivo le pulsazioni accanirsi sul mio cuore, ora in procinto di esplodere. I suoi singhiozzi continuavano a riecheggiare nella stanza coprendo il brusio dei presenti. Guardava me e nessun altro. Solo me. Nella sua immobilità e fragilità rifletteva, come uno specchio, la mia triste esistenza e ineluttabilmente se ne nutriva.
Come poteva tutto ciò accadere? Il panico prese possesso della mia mente.
- Ti prego non piangere! Ti prendo per mano e ti porto via! - avrei voluto urlare con tutte le mie forze. Ma erano parole impronunciabili, propositi intraducibili. Nulla poteva farmi superare quella distanza, ora reale, che mi separava da lui. Nessun conforto era possibile, nulla mi era concesso per colmare il vuoto sconsolato di quella giovane esistenza dall'anima urlante.
- Spostati, non fare i capricci e smettila di piagnucolare – ordinò una voce di donna. Mi parve di intravedere lo sguardo fugace e imbarazzato di una signora che, passando velocemente a quattro passi di distanza da me, dissimulò tutta la sua indifferenza facendomi sentire un essere invisibile.
Lui, però, non voleva saperne di spostarsi, era come incatenato alla sua posizione e continuava a guardarmi fissa negli occhi. Ancora più imbarazzata la donna si guardò intorno e insistendo aggiunse: - Muoviti e fai silenzio perché se vien fuori il dottore, ti concia per le feste! - Lo aveva afferrato per l'avambraccio e cercava di trascinarlo dalla sua parte, invano. Pareva una statua di bronzo piantata nel pavimento.
D'improvviso, come una musica interrotta dalla mano di un ascoltatore infastidito, smise di singhiozzare, cedette alla presa insistente della donna e si allontanò nella direzione impostagli.
Non avevo mai fatto così tanti tentativi di spiare il mondo con la coda dell'occhio. Mi accorsi dei suoi movimenti, intuii da quel poco che vedevo e dal tramestio di un paio di chiavi cadute a terra, che stava armeggiando con qualcosa di simile a una borsa. Frugava con mani leste, incurante dei rimproveri della donna. Dopo appena qualche secondo sentii i suoi passi avvicinarsi
Lo vidi di nuovo ritto di fronte a me. Il viso minuto e indifeso ma con l'eloquente coraggio di chi è pronto alla scoperta del mondo. Lo sguardo era dolce e deciso. Le piccole mani, dalla pelle bianca e vellutata, non potevano aver conosciuto il gelo di oltre cinque inverni. Non era più alto della mia ombra alle prime ore pomeridiane.
Senza esitare, poggiò qualcosa sul mio grembo.
- Non riesco a vedere piccolino, mi dispiace, la mia testa non si piega, le mie mani non si muovono, le mie gambe sono buttate lì...
Mi aveva sentito!
Con la manina di un angelo riprese ciò che aveva poggiato sulle mie gambe, lo avvicinò al mio viso e asciugò dolcemente la lacrima solitaria che scendeva dalle mie gote.