Tra noi c’era sempre chi propendeva per un altro posto. Non riuscivamo mai a metterci d’accordo. Se per caso uno proponeva il bianco, l’altro suggeriva il nero. Se uno consigliava un rifugio in montagna, potete essere sicuri che un altro avrebbe indicato, subito dopo, un localino in riva al mare. Potevamo discutere per ore e ore prima di decidere. E quasi mai trovavamo la soluzione. Neanche a pagare.
Questo, però, avveniva se lui mancava. Già, perché quando lui era presente la situazione era del tutto diversa. Allora i problemi non esistevano. Se lui era lì con noi non avevamo dubbi sulla scelta del luogo dove recarci a cena. Non racconto storie. Lui era il boss, il grande capo, la guida vivente dei ristoranti, e un personaggio del genere sapeva sempre – come il comandante di una nave – quale fosse il posto migliore per noi. Non saprei dirvi come faceva, visto che non era ricco e neppure un genio. Magari dipendeva dalla professione che svolgeva (commercializzava coltelli e altri oggetti da cucina). Posso sbagliarmi.
In ogni caso conosceva i posti più singolari del mondo. Aveva sempre un tavolo libero in qualche locale e non soltanto in quelli contrassegnati da tre forchette sulle riviste gastronomiche. Frequentava i ristoranti più deliziosi della terra e ne aveva uno da segnalarti per ogni centro abitato presente sulle cartine geografiche. Perciò, se per qualche motivo dovevi recarti a Roma, potevi essere certo che lui ti avrebbe infilato nelle tasche della giacca una lista con le migliori trattorie dove andare a cena. Era informato sulle locande di Berlino e pure su quelle di Parigi. Senza citare i consigli che poteva darti su Venezia o Barcellona. Sapeva tutto straordinariamente e di certi locali conosceva i menù e le cantine meglio della sua biografia.
D’altronde io lo avevo sperimentato e sapevo che non mentiva. Una volta ero stato a Praga e vi giuro che non scorderò mai l’osteria in Piazza Malastrana dove mi aveva dirottato a pranzare.
«Cucinano un maialino al forno che è fenomenale» mi aveva detto prima di partire.
«E dove becco Piazza Malastrana?» avevo chiesto, solo per cercare di defilarmi.
«Non faticherai a trovarla» aveva ribattuto. «Si tratta di una delle piazze più importanti di Praga. Parti dalla Città Vecchia, oltrepassi la Moldava sul Ponte Carlo, prosegui diritto per qualche centinaio di metri e trovi la piazza sulla destra. Il ristorante e lì, sotto i portici. Ti assicuro che non puoi sbagliare.»
Non avevo sbagliato.
Insomma, non vorrei apparire di parte, ma sono sicuro che avrebbe potuto scrivere un libro al riguardo. Tuttavia, del ristorante dove aveva intenzione di portarci quella sera, non ci aveva mai fatto menzione. Doveva trattarsi di un segreto; come se fosse un posto riservato agli affiliati di qualche loggia massonica. Anzi, ho la netta sensazione che, in condizioni normali, non ce ne avrebbe mai parlato. Ma quel giorno, capitando dentro il bar, dove noi stavamo assaporando il consueto e corroborante aperitivo prefestivo, si accorse che stavamo quasi arrivando alle mani per la scelta di un locale e suppongo sia quello il motivo che lo spinse a esclamare, in pompa magna, quella frase: «Smettetela! So io dove portarvi!»
Neanche ci avesse ipnotizzato con un trucco da illusionista: ci tranquillizzammo immediatamente, come se non stessimo aspettando altro.
«Grazie a Dio!» disse uno di noi. «Qualche minuto di ritardo e sarebbero spuntati i coltelli.»
Lui si mise a ridere. «Esagerati, non posso mai lasciarvi soli» disse.
«Cosa hai in mente?» gli chiesi.
Lui mi strappò, con forza, il bicchiere di vino bianco che avevo in mano. Dapprima guardò la struttura e il colore controluce, poi fiutò il contenuto un paio di volte. Ma non bevve. Non posò nemmeno le labbra sul calice. Si limitò a mettersi in posa come un dandy. «Amico mio!» disse tenendo il bicchiere in mano; ora lo roteava neanche fosse un sommelier provetto. «Stasera, penserai di cenare in paradiso… Ci venite tutti?»
Come è logico supporre nessuno si tirò indietro. Ma era del tutto prevedibile questa reazione. Non credo sia facile trovare degli ingordi come noi in giro per il mondo.«Mi raccomando» continuò lui. «Non mangiate troppo a pranzo e portate soldi a sufficienza.»
In quattro e quattro otto, con due semplici telefonate, mettemmo insieme la serata. Decidemmo di affittare pure un pulmino. Sapevamo come finivano certe notti: dopo la cena, ci sarebbe stato una visita al night e quindi non era il caso di prendere la faccenda sottogamba. Metà di noi sarebbe ritornata all’alba stravolta marcia, e siccome, tra andata e ritorno, c’erano da fare quattro ore di strada, convenimmo che non era certamente una cosa saggia farsi fregare – da qualche volante della polizia – alla guida di una macchina privata. Studiammo per bene un piano dunque e alla fine concordammo di rivederci al bar verso le cinque.
A casa, per pranzo, non mangiai quasi nulla. Me la cavai con un paio di pesche. Poi trascorsi il resto del pomeriggio pensando a cosa mettermi per fare colpo. Era parecchio tempo che non facevamo un’uscita simile ed ero assai fiducioso sulla serata che si prospettava. Non so bene per quale motivo, ma presagivo che mi sarei divertito davvero, e preparai i vestiti migliori che avevo. Possedevo un abito firmato che di solito indossavo ai matrimoni e pensai che fosse la sera giusta per metterlo. Gli feci prendere un po’ d’aria sul balcone. Poi, prima di indossarlo, mi rasai, mi profumai e mi impomatai di gel i capelli. Insomma mi misi realmente in ghingheri e uscii di casa con la certezza che gli amici sarebbero schiattati dall’invidia – ma dopotutto lo sapete pure voi che gli uomini, quando lo vogliono, sono peggio delle donne.
Però, quando, verso le cinque, incontrai gli altri, mi resi conto che avevamo fatto le stesse considerazioni. Non ce n’era uno in jeans. Portavamo tutti gli abiti della festa e ce n’erano un paio, addirittura, con il papillon al collo.
Il boss si mise a ridere. Facevamo sempre la figura dei deficienti con lui. Indossava una polo e neanche troppo bella. «Dove credete di andare?» chiese.
Noi ci guardammo l’un l’altro sperando che qualcuno avesse il coraggio di ribattere. Ma nessuno parlò.
«Pensate che abbia intenzione di condurvi a una cena dopo una Prima alla Scala?» domandò di nuovo lui, serio questa volta.
«No ma…» bofonchiò uno.
«Allora?» mugugnò il boss. «Sapete spiegarmi questa pagliacciata?»
Ci guardammo stupiti, ma nessuno rispose e alla fine lui scoppiò a ridere. Ci stava prendendo in giro. In un modo o nell’altro, riusciva sempre a farlo.
Non disse dove stavamo andando, ma durante il viaggio non si levò dalla faccia quel ghigno ironico. Era logico che avesse ordito qualche tiro. Lo conoscevo e sapevo come si comportava di solito. Probabilmente aveva architettato qualche sorpresa. In fondo si divertiva così. Più di una volta, ci aveva fatto trovare ragazze e altre cose piccanti e ora mi sentivo un pochino come Pinocchio in viaggio verso il paese dei balocchi.
Fu un viaggio piacevole, comunque, sebbene non sia in grado di dirvi con esattezza che strada facemmo una volta usciti da Milano. L’autista del pulmino guidava bene e ci permise addirittura di bere e di fumare all’interno della vettura. Facemmo tutto ciò che volemmo; in fondo, gli avevamo riempito le tasche di soldi e non so proprio come poteva fare a vietarci qualcosa. Si limitò a guidare tranquillo verso una valle delle Orobie.
Intanto l’euforia aumentava. Sembravamo un nugolo di pazzi. Pensavo di essere tornato ai tempi del servizio militare, quando – durante le ore di libera uscita – non si desiderava altro che fare disastri. Non sembravamo per niente uomini vicini alla trentina. Sghignazzavamo, come tanti idioti, alla minima battuta e quando parcheggiammo, nello spiazzo tra i pini davanti al locale previsto, un paio di noi erano già ubriachi.
Il posto, in realtà, mi fece una brutta impressione sul momento. Doveva essere una specie di agriturismo, ma visto dall’esterno sembrava tanto la casa di un fantasma, o meglio ancora di una strega. Inoltre, intorno, c’era un tanfo talmente forte di caproni in calore che ti veniva quasi da vomitare. Lo giuro! Pareva uno di quei luoghi che, se ci cadi dentro, non dormi più per un mese di fila.
Però, dopo essere entrati, dopo essere stati accolti con cortesia da uno dei proprietari; dopo esserci seduti nella sala da pranzo attorno a un tavolo tondo, e dopo essere stati soggiogati da un fenomenale pianista che suonava Chopin, cambiai opinione.
Ti veniva appetito solo a stare seduto e gli altri clienti presenti erano precisi come l’impaginazione di un best seller. Tra loro riconobbi persino un attore famoso. Sembrava tutta gente piena di soldi e perbene. Quindi era naturale che il locale fosse a modo. C’erano un paio di ragazze che avrebbero risuscitato un cadavere. Senza escludere le caratteristiche della sala.
Era davvero elegante, tutta dipinta di bianco, con una parete ricoperta da un enorme rastrelliera piena di bottiglie di marca. C’erano le bottiglie di vino migliori del mondo e si passava da quelle toscane, alle piemontesi, alle pugliesi… senza escludere le bottiglie straniere. Una meraviglia della natura in definitiva e credo che avremmo baciato tutti il boss dalla contentezza. Anche la cucina doveva essere squisita perché girava un profumo che inebriava. Però non c’era una carta sulla quale erano elencati i piatti da scegliere. Bisognava accettare quello che proponeva la casa, volta per volta. Era una delle caratteristiche del locale. Così, quando giunse l’altro proprietario, quello che si occupava della cucina e del servizio ai tavoli a domandare cosa desideravamo, lasciammo la decisione al boss senza fare obiezioni. Lui non disse niente, aspettò che il gestore finisse di elencare i piatti, poi ci guardò uno a uno, felice come una Pasqua per averci portati lì. Alla fine trasse un sospiro e indirizzò lo sguardo verso il gestore che aspettava, lo guardò negli occhi. «A dire il vero siamo qui per la vera specialità della casa» gli spiegò.
«La conoscete?» chiese il tipo sorridendo. Era secco come un’acciuga e indossava un abito gessato all’ultima moda.
«Per loro è la prima volta» gli disse il boss dopo averci indicato con lo sguardo. «Ma sono d’accordo» aggiunse. Poi gli fece un cenno d’assenso alzando il pollice della mano destra. Il gestore non disse una parola che fosse una, rimase impassibile per qualche istante, poi sparì in cucina.
Che serata dopo!
Adesso ho dimenticato tutti i dettagli della cena. È impossibile ricordarli. Probabilmente bevvi un bel po’ di vino come al solito, ma non ricordo a che ora lasciammo il locale per andare in discoteca. Ho proprio dimenticato questi particolari. So, però, e molto bene, che spesi un pacco di soldi. Questo sì che ho bene impresso nella memoria. Anzi, spendemmo tutti un pacco di soldi. Ma vi giuro che si tratta del denaro che ho sperperato meglio in vita mia. Sono pronto a rifarlo, perché mangiai davvero e davvero bene.
Non posso dirvi cosa ovviamente. Correrei grossi guai nel farlo. È chiaro che so bene cosa avevo nel piatto, ma non posso scriverlo. Non voglio finire in galera, o peggio ancora mandarci qualcuno con le mie ruffianate. Meglio che sia qualcun altro a prendersi una responsabilità del genere. D’altra parte, non credo sia difficile immaginarlo se avete letto questo resoconto. Se invece così non è (lo dubito), nessun problema: sono sicurissimo che, prima o dopo, verrà fuori il menù distintivo di quel locale. Molto presto ci sarà qualcuno che ne descriverà gli aspetti peculiari su qualche blog in Internet e finirà la festa. Finisce sempre in questo modo dopotutto. Ma spero che succeda il più avanti possibile, perché il sottoscritto, prima che succeda, vuole tornarci in quel locale. Voglio ritornare a sedermi attorno a uno di quei tavoli tondi e voglio di nuovo risentire la musica di quel pianista virtuoso. Voglio nuovamente inebriarmi i sensi con quell’aroma e voglio rivedere un’altra volta tutte quelle belle bottiglie di vino di marca parate a festa sulla rastrelliera. Voglio tornarci anche se devo spendere l’intero stipendio.
O forse sono solo obbligato a tornarci. Già! In fondo, deve trattarsi soltanto di un semplice obbligo, perché ho la netta sensazione che, se non ci torno, prima o dopo finirò con ammazzare qualcuno per strada. Mi accorgo di poterlo fare da come guardo la gente che incontro; gli osservo le cosce e le spalle neanche fossero quarti di manzo appesi ai ganci di in macelleria. È più forte di me, e devo sembrare un pazzo mentre li fisso. O magari, a questo punto, c’è dell’altro. Forse ora mi sono trasformato in un povero disadattato assuefatto. Può darsi anche che sia così. Non lo so!
Vi giuro, però, che due pesche per pranzo non mi bastano più.