Ma cosa mi aspettavo da Lisa Lodu? Che si presentasse al pub con in mano una raccolta di firme contro l'infibulazione? Già al liceo ancheggiava tra gli occhi carnivori dei compagni come se la promozione del corpo fosse più auspicabile di quella scolastica. L'ultima volta che l'avevo vista, diciannove anni prima alla festa del diploma, si stava ripassando i maschi della classe contro cui aveva vinto la scommessa sulle materie sorteggiate per la maturità. Eppure, qualcosa di diverso me l'aspettavo. Forse perché quel pomeriggio, quando ci eravamo incontrati per caso al distributore, aveva accettato di uscire con me, proprio con me, quello che in quinta era fuori servizio come un cesso, a sentir lei. Forse era stato il mio lavoro a farle accettare l'invito: la parola "avvocato" profuma di portadocumenti in pelle e di inchiostro per stilografiche di marca. Sì, mi aspettavo che fosse cambiata, com'ero cambiato io. Alle superiori avrei donato gli organi da vivo, pur di finire nel suo campo visivo, e ora mi trovavo invece a guardarla dall'alto di un giudizio.
Ordinammo da bere e lei cominciò ad elencarmi i capi di abbigliamento comprati all'outlet nel pomeriggio. Poi, cambiando argomento senza aspettare alcun commento sulle sue spese, mi chiese: - Sono stata ad Ibiza per Capodanno, e tu?
Il suo profumo mi scendeva in gola costringendomi a deglutire di continuo per non cedere alla tosse.
- Ho accompagnato un gruppo di disabili a Lourdes col treno, - risposi.
Il sorriso le si smorzò, come se si fosse accorta all'improvviso del gusto amaro del rossetto: - Che carino.
- Sono ormai tre anni che parto volontario, - dissi.
Non era vero. Avevo trascorso l'ultima notte dell'anno sotto le lenzuola di una delle segretarie dello studio, e di disabili non ne avevo neanche tra i clienti, ma volevo che Lisa cadesse dal piedistallo, che mi guardasse come qualcosa di diverso da lei, ma non per questo inferiore. La prosopopea di cambiare il mondo, quella che si era impossessata di me agli inizi della carriera e che poi si era trasformata in burocratica noia, si era risollevata da qualche parte nel mio cervello e si incarnava ora nella voglia di strappare la bellezza da quel volto per guardare cosa c'era sotto; volevo che lei precipitasse nel proprio vuoto, volevo affacciarmi al viso divelto e urlarle: - Ehi, sono io, quello fuori servizio!
- In agosto invece faccio l'animatore al centro disabili di Cervia, - aggiunsi.
- Bene, ti dai da fare, - e bevve, mimando una sete che doveva essere ben lontana dal provare. Da sopra il bicchiere gli occhi cercavano un gancio a cui appendere un inizio di conversazione che non si sfilacciasse come tela consunta; la stavo tormentando e quel potere mi dava alla testa. Non importava quale poteva essere il prezzo che portava sulla fronte: sentivo che per me sarebbe sempre stato accessibile, talmente basso da sfiorare il regalo.
- Mio fratello è down. Non sapevo che ci fossero centri disabili a Cervia, - mi disse, e tacque rigirando il bicchiere tra le mani. - Pensavo di conoscerli tutti. Che strano.
Iniziò a fissarmi. Non mi aveva mai guardato così. Non mi aveva mai guardato.
L'aria si inclinò, e io scivolai su di essa, fino a cadere nella classe in cui osservavo di nascosto quegli occhi che sembravano lasciar passare qualunque cosa senza mai permettere alle ciglia di coprirli. Mi ritrovai a fissare la diciottenne Lisa Lodu come una sanguisuga che cercava di estrarle i pensieri dalla mente. La vedevo ridere, o corrucciarsi per un lieve screzio, ma sempre solo per pochi minuti; poi si sistemava lo scollo a V, e noi maschi, ubriachi di quei gesti, ci scambiavamo pacche sulle spalle per nascondere il nostro barcollio. Sembrava fatta di segatura bagnata: se perdeva una manciata di se stessa, la raccoglieva e la rimetteva al suo posto senza che alcun ricettore del dolore avesse fatto in tempo ad attivarsi; e a noi bastava che le forme originarie venissero conservate. Risalii lungo il piano inclinato dei ricordi e tornai al tavolo del pub: lei mi salutò quando già mi aveva voltato la schiena. Non cercai di fermarla: mi sembrava di avere due instabili colonne d’acqua al posto delle gambe.
E' vero: le mancava l'etichetta con le istruzioni per l'uso del corpo, ma di quelle si poteva fare a meno. Ciò che restava astruso era il resto di lei, la parte della donna che nessun libretto di istruzioni avrebbe potuto spiegare e che nessun vocabolario avrebbe potuto definire con la maledetta insufficienza delle sue parole.