008 1946 – 10 anni - Il giardino
La mia mamma mi raccontava che quando sono nato mio padre comprò un pezzo di terreno. Voglio ricordare che sia la famiglia di mio padre, come quella di mia madre (ne ho parlato in altri punti di questi miei ricordi) erano famiglie di proprietari terrieri. La famiglia di mio nonno paterno, purtroppo, a causa della sua morte prematura avvenuta a 41 anni (quando mio padre aveva 19 anni ed era il maggiore di otto figli: lui, zio Nino, zia Tina, zia Maria, zio Turiddu, zio Graziello, zio Tanuzzo e zia Elvira) aveva dovuto vendere tutto per sopravvivere.
Così, dicevo, mio padre, quando nacqui io, comprò un pezzo di terreno. A questo proposito mia mamma mi raccontava che quando avevo un anno e qualche mese, mi avevano portato in questa campagna e c'era una vite con un grappolo d'uva. Mi son messo sotto la vite a mangiare l'uva, staccando i chicchi dal grappolo uno ad uno finché rimase soltanto il grappolo spoglio.
Per prima cosa mio padre fece costruire in quel terreno una casa, parte adatta per essere abitata da noi quando ci andavamo, un'altra parte per il “massaro” che coltivava la campagna.
Il terreno aveva pochi alberi e come ho detto qualche vite. Mio padre, poiché il terreno si prestava provvide a trasformarlo in agrumeto. Nel tempo mio padre ingrandiva la proprietà acquistando dei pezzi di terreno adiacenti ad essa, e provvedendo a bonificarli e a trasformarli in agrumeto. Quando io avevo 10 anni aveva da poco acquistato un altro pezzo di terreno e aveva provveduto a dissodarlo e a prepararlo per piantare le nuove piante. Questo lavoro veniva fatto d'inverno in quanto la stagione era propizia a causa delle piogge, perché le nuove piante avevano bisogno di acqua. Ricordo perfettamente tutto come fosse ieri.
La domenica mattina mio padre mi svegliava alle quattro e dopo esserci lavati e vestiti rapidamente facevamo colazione. Mia madre mi preparava una grande tazza di latte caldo nella quale io spezzettavo una intera mafalda. Sono stato abituato a fare sempre una abbondante colazione la mattina appena alzato ed ancora oggi questa abitudine mi è rimasta. Alle quattro e mezza ci si metteva in macchina, aveva ancora la cinquecento che aveva comprato prima della guerra, che le era stata sequestrata per motivi militari e che poi le era stata restituita. Viaggiavamo per circa un'ora per arrivare in campagna prima degli operai.
Alle sei del mattino si cominciava a lavorare. Durante la settimana erano state scavate tutte le buche dove dovevano essere posizionate le piante di arancia o di mandarino che erano state portate con il carretto il giorno prima con la zolla di terra attaccata attorno alle radici. I filari erano già stabiliti. Mio padre si metteva ad una estremità ed io in posizione ortogonale a lui. Gli operai posizionavano la pianta nella buca e mio padre da una parte ed io dall'altra davamo le indicazioni (“più verso mare” - “più verso terra” - “più verso il fiume” - “più verso la montagna”) per posizionare la pianta “in sesto” cioè perfettamente allineata. Posizionata la pianta nella buca, le radici venivano ricoperte di terra, fatta la “conca” e irrigate. Completato il filare si passava al successivo e così via finché non venivano piantate tutte le piante che erano arrivate.
Alla fine, quando tutte le piante erano state piantate, si passava al tratto di terreno successivo, che doveva essere ancora piantato e venivano piazzate le canne dove, durante la settimana successiva, gli operai dovevano scavare le buche per piantare le altre piante.
Era un lavoro che mi inebriava. Mi sentivo utile, mi sentivo importante, mi sentivo alla pari degli uomini adulti che lavoravano e che io, assieme a mio padre dirigevo. Poi veniva acceso il fuoco attorno al quale si sedevano sopra un sasso gli operai ed al calore della brace arrostivano il pane e le olive. Mangiavo con loro. Mi offrivano il pane caldo e le olive anch'esse calde. Sono state esperienze che mi hanno forgiato e mi hanno fatto diventare quello che ancora oggi sono: uno che crede nel lavoro e che rispetta quelli che lavorano, duro ed esigente, prima con se stesso e poi con gli altri.
Quando, la sera, al calare del sole, io e mio padre tornavamo a casa, ero stanco, ma felice. Sapevo che ero stato utile, sapevo che mio padre mi apprezzava, sapevo che ero in grado di affrontare qualsiasi evenienza, prevista o imprevista, sia di lavoro che di altro, così come lo era mio padre che guardavo con ammirazione e che cercavo di imitare in tutto.