Sera. Solo la luce debole di un lampione di strada illuminava la stanza.
Appena entrato, si era buttato sul divano, tolto le scarpe, e aveva pesantemente abbandonato la testa all’indietro. Neanche casa sua gli dava pace. Aveva sperato che entrando in casa l’angoscia si sarebbe placata. Anzi forse era peggio, gli sembrava che le sue cose si girassero dall’altra parte quando le guardava.
Si sforzava di rimane immobile: se si fosse alzato avrebbe spaccato tutto.
Forse parlare con qualcuno gli avrebbe fatto bene, ma si vergognava come un pedofilo. Tanto era solo questione di tempo e ne avrebbero parlato tutti.
Per ora gli toccava ascoltare la voce paciosa di Jerry Scotti col suo quiz che il professor Di Natale del piano di sotto sparava a mille visto che era duro di orecchi così quanto era buono di cuore.
Prese il telefono. Mike rispose quasi subito.
“Hi Mike. I’m Calò. Listen, I’ve changed my mind. I’ll accept your offer. If you want I can be at London even tomorrow. Actually I’ll be there tomorrow.”
“Really? Oh, it’s fantastic. I knew it. It’s a great opportunity. We sign the contract and we can leave for Nairobi as soon as possible”.
“As soon as possible. I’ll call you soon after my lending in London”.
In realtà non aveva mai pensato di accettare. Avrebbe dovuto stare tre anni senza tornare a Roma. Erano tanti soldi, ma prima non ci aveva mai pensato veramente. Stasera avrebbe accettato anche di andare a cercare petrolio sulla luna, gratis.
La furia gli era passata: l’idea della lunga fuga lo aveva placato. Oramai scappare per lui era diventata un’abitudine. Il dolore che gli lacerava il cuore però era rimasto lì. Allora aprì una bottiglia di Lame del Tenente, un vino salentino denso e deciso. Si sedette e iniziò a bere, proprio come quella volta. Accese il pc e si prenotò il primo volo per Londra e visto che c’era si cancellò da facebook. Non si fosse mai iscritto.
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“Zio, bisogna che ti fai facebook anche tu. A parte che puoi vedere tutte le foto che posto, poi sai quello che faccio. Conosci le mia amiche che subito ti chiederanno l’amicizia, e magari puoi vedere anche il profilo di Luca. Così dirai alla mamma che non è brutto come dice lei.”
Come era bello vedere la faccia allegra di Sara sullo schermo del computer via Skype. I suoi occhi erano ancora più azzurri che al naturale. Il loro colore era certo un regalo del padre, ma per il resto Sara era una Calò fatta e finita. Il viso elegantemente ovale impreziosito da con occhi grandi e pieni d’espressione; ma la bocca, con labbra carnose e perfettamente disegnate che quando si aprivano in un sorriso creavano delle fossette tirabaci al centro delle guance, la bocca era il marchio di fabbrica delle donne Calò.
“Ma dai, Sara, è una roba da giovani. Poi mi ci vedi a me che scrivo: oggi mi sono svegliato allegro, esco e mi faccio il bagno con un tuffo dalla piattaforma”
“Ma guarda che se l’è fatto anche papà. E dice che gli serve anche per il lavoro, per rimanere in contatto coi colleghi e per comunicare con gli alunni.”
Lavoro, ma quale lavoro, se tuo padre fa l’insegnante? Avrebbe voluto dirgli, ma si mangiò la lingua.
Era da una vita in competizione con Simone. Da quel sabato di tanti anni fa quando la sorella lo portò al mare a casa al mare, a porto Santo Stefano. Non era il primo ragazzo di Gabriella, ma presto capì che gli altri non erano stati niente. E che da quel momento sua sorella, non sarebbe più stata solo sua. Ora gli invidiava Sara, anche più di Gabriella. Lui si era preso le donne più importanti della sua vita e avrebbe pure dovuto essergli simpatico?
Suo cognato, poi, non sapeva cosa significa lavorare veramente. Lui si che sgobbava; tre mesi su di una piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano indiano con un caldo che ti sfiniva quando non era la stagione delle piogge. Per non parlare di quando arrivavano gli uragani. Un mese a Roma e poi di nuovo tre mesi in mezzo al mare.
Faceva questa vita da 15 anni e anche se non lo avrebbe ammesso con nessuno, era stufo. Diceva a tutti che questa era la vita che aveva sempre sognato. Le piattaforme lo avevano tenuto lontano dalla routine di un matrimonio e di un lavoro in ufficio.
“Voi non sapete quanta libertà mi ha regalato stare 9 mesi all’anno chiuso in una piattaforma in mezzo all’oceano” andava dicendo ai suoi, pochi, amici romani. Loro spesso ci credevano e magari lo invidiavano pure. Lui aveva smesso di crederci da tanto.
Gli avevano appena proposto di dirigere una piattaforma di nuova generazione in fase i costruzione al largo delle coste keniote. Un monte di soldi e di responsabilità, ma significava anche non poter tornare a Roma mai almeno per i primi tre-quattro anni. E lui già era stanco di questa vita. Aveva fatto finta di prendersi qualche settimana per pensarci, ma già sapeva che avrebbe rifiutato.
Così decise di farsi un account su facebook. Ci avrebbe postato le foto più belle e le canzoni più cool: così poteva stracciare Simone anche sulla rete.
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Per una volta, l’aereo atterrò in perfetto orario. Come sempre Fiumicino gli sembrò bellissimo eppure lui ne aveva visti di aeroporti in giro per il mondo, parecchi molto più efficienti, accoglienti e attrezzati. Ma quell’aeroporto significava casa.
Si sentiva carico e lievemente eccitato, come in attesa di un evento straordinario, come se stesse per ricevere una notizia e fosse sicuro che sarebbe stata ottima.
Se era stato contento di arrivare a Fiumicino, fu felice di entrare in casa. Aprire la porta appena tornato dai tre mesi in mezzo al mare comportava una specie di scarica di piacere erotico. Infilare la chiave nella toppa, girarla, spalancare l’uscio, riconoscere l’odore umido e sensuale di quelle stanze, penetrare con decisione nel salone, togliersi le scarpe per sentire il suo parquet accarezzargli i piedi, capire che le sue cose lo stavano aspettando con trepidazione, arrivare alla porta finestra, alzare la persiana, farsi abbracciare dalla luce erano un crescendo di sensazioni che culminava con un orgasmo puro quando usciva fuori e vedeva i tetti di Roma arrossati dal sole al tramonto.
La serata del suo arrivo era tutta e solo dedicata alla sua città. Dopo la doccia, usciva e passava per quei quattro o cinque posti, fuori dai circoli del turismo di massa, che conosceva a memoria e che voleva salutare rassicurandosi che fossero rimasti sempre uguali. Trascurava la Roma di massa, dove andavano gli altri; quelle strade erano invase oramai dalle stesse vetrine che si trovavano a Parigi o a Bangkok. Quanto odiava la globalizzazione dei consumi, proprio lui che il più globalizzato dei lavoratori.
La prima serata romana finiva immancabilmente alla trattoria Zio Gipo a Trastevere. La scimmia da amatriciana veniva placata con una porzione e mezza abbondante che gli serviva oramai in automatico Gipo in persona, un curioso milanese che cinquant’anni fa si era trasferito a Roma per amore e aveva imparato a cucinare romano meglio della sora Lella. Il secondo variava a seconda della stagione, dei consigli di Gipo, dell’estro del momento: saltimbocca, cotolette d’agnello, fritto alla romana.
Quella sera, una splendida sera di maggio, era in vena più che mai e si sparò una bella trippa, alla faccia del colesterolo e dei trigliceridi. Non beveva vino, mai più.
Tornato a casa si sedette un po’ al pc prima di prendersi due dita di grappa di Teroldego e mettersi davanti alla tv e lasciarsi addormentare piano.
“Piero Prosperi vuole stringere amicizia con te su facebook” recitava il messaggio.
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Estate del 82, estate della maturità e dei mondiali in Spagna. Un gruppo di ragazzi straordinario, come tutte le comitive e tutti i diciottenni. Lui e Anna, la sua ragazza, Piero e Celeste, altra coppia inossidabile e Massimo detto lo sciupa femmine, perché non se ne lasciava scappare una e nessuna, pare, si faceva scappare lui. Ebri della promozione e con ancora negli occhi e nelle orecchie l’urlo di Tardelli, organizzarono un viaggio in Grecia. Partirono solo in quattro, perché una vecchia zia di Celeste pensò bene di morire il giorno prima della partenza e lei alla fine rinunciò.
Avevano preso in affitto per poche lire una casa a Paxos un’isola ionica pochi chilometri a Sud di Corfù. Quindici giorni di solo mare, sole, mangiare e bere. Divertimenti pochi ma tanto sarebbe dovuti essere due coppie e Massimo che si voleva prendere un paio di settimane di sabbatico dalle donne; andava dicendo che Paxos sarebbe stata per lui quella che Singapore era stata per Vecchioni nella canzone dei Nuovi Angeli.
Andavano spesso a pesca subacquea, anche se lui era l’unico ad avere la fissa. Era anche l’unico che ci sapeva fare. Col pesce che prendeva mangiavano tutte le sere gratis al miglior ristorante dell’isola e quando andava bene si portavano anche qualche dracma a casa.
Un pescatore di Paxos, Christos, li accompagnava nelle secche di fronte all’isola dove si poteva trovare pesce in abbondanza.
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Aveva subito accettato l’amicizia e si era fiondato sulla sua pagina. Era secoli che non lo vedeva ed era curioso di sapere come se la passasse.
Una moglie, carina, anzi proprio bella. Ovviamente non era Celeste, ma questo lo sapeva già. La loro storia non era durata poi molto più a lungo della sua. Due figli maschi che giocavano a pallone. Un mestiere che gli si addiceva: l’informatore farmaceutico. Aveva la parlantina sciolta, la faccia simpatica e un aria da caciarone di classe. Chissà quanti medici e dottoresse riusciva a convincere che i suoi prodotti erano panacee per tutte le malattie possibili. E poi aveva quella spregiudicatezza e quel relativismo morale che per far affari coi medici è fondamentale.
Postò due video trovati in fretta e furia su youtube e seguendo le indicazioni di Sara riuscì a taggare Piero Prosperi. Il primo era di Cocciante: Celeste Nostalgia. Era una delle hit di quegli anni: ma principalmente era usata dagli amici per canzonare Piero quando lo scoprirono innamorato di Celeste, appunto. Era quasi sempre Massimo che iniziava a fischiarla, prima a basso volume e poi sempre più forte trascinando gli altri. E Piero allora partiva coi moccoli e le grida, almeno fino al momento in cui scoprì di essere ricambiato. Da quel momento sorrideva compiaciuto quando qualcuno iniziava a cantarla: e infatti di lì a poco i suoi amici, perso ogni gusto, smisero di farlo.
Invece Hard to say I’m sorry dei Chicago era stata la canzone di quell’anno. A lui i Chicago non facevano impazzire e Cuccurucù Paloma di Battiato gli piaceva di più. Ma ricordava benissimo che appena entravano nella macchina di Piero, lui infilava la cassetta dei Chicago di cui si ricordava perfettamente il colore.
“Come stai, brutta canaglia?” gli scrisse in bacheca.
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Di quel giorno lui ricorda ogni particolare: era andato a pesca da solo, ma arrivato a metà strada dalla secca, quando stava cominciando ad indossare la muta si ricordò che il giorno prima aveva perso il carichino scivolatogli in acqua mentre ritornavano a riva. Il carichino è un aggeggio di plastica nera piccolo e insignificante ma assolutamente necessario per caricare il fucile subacqueo.
Cercò nella sacca da sub il sacchetto dove teneva alcuni carichini di riserva. Ma non li trovò, evidentemente erano nell’attrezzatura che aveva lasciato a terra.
Da buon pescatore legato alle piccole superstizioni, fece buon viso a cattivo giuoco e se ne uscì dicendosi che non era cosa di pescare quel giorno, il destino era stato chiaro. Ignorava ancora che il destino era stato anche cinico e baro, come prammatica prevede.
Arrivati al molo, un signore francese che conosceva gli propose un’uscita in barca a vela: c’era un bel vento costante con un mare con delle belle onde lunghe che invitava a prendere il largo con una deriva.
Rifiutò, avrebbe invece raggiunto Anna e avrebbero fatto il bagno insieme.
E si diresse verso casa per lasciare la pesante sacca con l’attrezzatura.
L’appartamento che avevano preso in affitto era in cima ad una collinetta con una splendida vista sul porticciolo. Per arrivarci, non seguì il sentiero di pietrisco che l’avrebbe condotto alla porta d’ingresso che dava sulla piccola stanza da pranzo da cui partiva una scaletta interna che permetteva di raggiungere le due stanze da letto del piano superiore. Prese invece un sentiero di terra, ripido e tortuoso ma più breve che arrivava al retro della casa dove c’era una la terza stanza da letto, più piccolina delle altre due perché ricavata nel seminterrato. Era la camera che avevano lasciato a Massimo che era da solo. Volendo si poteva entrare in casa di lì o si potevano fare ancora pochi metri di salita, girare intorno alla casa ed entrare dall’ingresso principale.
La prima cosa che vide furono i capelli che riconobbe subito. Si chiese cosa stesse facendo in quella stanza. Stava per chiamarla, quando dopo aver fatto un passo in più ne poté vedere la testa per intero. Il viso era contratto, gli occhi chiusi, e si muoveva ritmicamente. Ora era alla stessa altezza dei suoi occhi chiusi e purtroppo poteva anche sentire i suoi versi. Si fermò e gli parve che si fosse fermato anche il suo cuore e con questo tutto l’universo mondo. Era a quattro zampe sul letto e un uomo di cui lui non poté vedere il viso per via della persiana abbassata a metà la stava prendendo da dietro. La sua Anna stava scopando e lo faceva con gran gusto a quanto sembrava. Non riusciva a muoversi, era ipnotizzato dal quel viso, da quei capelli ricci che ondeggiavano su e giù. Il ritmo stava aumentando e i suoi gemiti erano più forti. Brutto stronzo, altro che sabbatico.
In quel momento lei aprì gli occhi e lo vide. Lanciò un grido.
Nei giorni che seguirono lui si era continuamente chiesto se quell’urlo fosse dovuto al piacere o alla vergogna. Nei trent’anni successivi avrebbe scoperto che la vergogna amplifica il piacere.
Se ne scappò via.
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“Finalmente anche tu nella nostra tribù di Facebook.”
Il messaggio di Piero in chat gli arrivò mentre curiosava ancora fra le sue foto e i suoi vecchi post. Si sentì quasi come se fosse stato sorpreso a spiare di nascosto nei cassetti della camera dell’amico. Doveva chiedere a Sara se era possibile che Piero l’avesse veramente visto mentre girellava curioso nella sua vita.
“Ciao Piero, come stai?”
“’Na bellezza. E tu? Da che parte di Roma abiti, che se sei vicino vengo e ci andiamo a bere una birra insieme”
“Al momento sarebbe difficile sono in mezzo al mare, nell’oceano indiano”, mentì spudoratamente, ma non era ancora pronto a rivedere Piero, aveva ancora paura di visitare quegli anni.
“Vai ancora a pesca?”
“Oggi come oggi pesco solo fregature. Sto lavorando”.
E gli raccontò del suo lavoro, tanto e della sua vita, poco.
“Allora quando torni a Roma, ci vediamo, promesso?” gli disse salutandolo.
“Sicuramente” rispose. Ma non ne era certo.
“A presto, allora”
“A presto”.
“A proposito, ti volevo dire che c’è un gruppo. Pizza, mondiale e maturità: noi della V C. Con tutti i compagni di scuola, almeno quelli che sono su facebook. Iscriviti.”
“Ok, ora vedo”