Un giorno la mia vita ebbe una svolta improvvisa: mia moglie scomparve letteralmente nel nulla. Alla mia denuncia gli inquirenti risposero con serietà, comprensivi, assicurandomi che di tutto sarebbe stato fatto per ritrovarla. Ricordo anche qualche pacca sulla spalla.
Nondimeno sono certo che molti di loro ridessero di me: a verbale fui costretto a dettare le sue ultime parole: "Caro! Esco a fare la spesa! Torno prestissimo!". Cosa ci può essere di più ridicolo? Vi giuro che allora pensai, immaginai, che gli inquirenti si sbellicassero tra di loro, al bar, con gli amici, con la famiglia, pensando a quel povero demente a cui era scappata la moglie.
Una volta sognai un poliziotto che, ritrovata chissà dove la mia compagna, la riportava a casa con l'ausilio di un enorme busta della spesa. Non a pezzi, s'intende, era più che viva, agitata, e la sua testa usciva da sotto uno dei manici, mostrandomi un sorrisetto decisamente malizioso.
Da subito partirono le ricerche, e qualche mese più tardi ancora si protraevano con inerzia. Di tanto in tanto qualcuno chiamava al telefono, assicurava che il caso non era passato in secondo piano, che si battevano svariate piste, ora a destra, ora a sinistra, che avrei rivisto mia moglie, etc...
Ma io sapevo che continuavano a ridersela.
Inoltre ero rassegnato all'idea che non sarebbe mai più tornata. Non sono mai stato un'ottimista. Secondo la mia personale visione, una persona scomparsa da più di un mese è già matematicamente spacciata, o felice e contenta dove avrebbe sempre voluto essere.
Dovevo accettare la realtà.
E così feci.
La mia vita si trascinava monotona, con le solite occupazioni, i soliti conoscenti, i soliti amici, senza intoppo alcuno, come se nulla fosse successo; le giornate erano sempre lunghe e al lavoro arrivavo puntuale e uscivo puntuale. Ignoravo i parenti di lei; tutto mi scivolava addosso, e solo per una questione di cortesia fingevo di interessarmi alle loro preoccupazioni, ai loro lamenti, alle indagini, alle fiaccolate in piazza. "Lei è scomparsa", mi dicevo, "devo farmene una ragione. Devo andare avanti."
Con il tempo però venne l'ansia, il nervosismo crescente; mi rendevo conto che, nonostante l'assenza di mia moglie, nulla era effettivamente mutato nella mia vita. Dov'era finita quella "famosa svolta" da me intravista? Già da prima della sua scomparsa sentivo l'esigenza di un cambiamento.
Il nostro matrimonio perdurava da svariati anni, non litigavamo quasi mai, e tutto si svolgeva al pari di una pellicola cinematografica che si ripete all'infinito. Una noia indecifrabile, un insoddisfazione insostenibile. Non fraintedetemi: la amavo, la amo tutt'ora. Volevo solo evadere, rompere quella routine, cambiare le carte in tavola.
Adesso, pensandoci a mente lucida, mi sembra folle, eppure quando scomparve pensai che il cambiamento sarebbe avvenuto di colpo, come per magia; credevo seriamente in un qualche meccanismo nel profondo del mio Io, che scattasse mostrandomi orizzonti e possibilità prima inaccessibili.
Sarei diventato un uomo nuovo. Una mattina mi sarei alzato e il mondo avrebbe assunto nuovi, sgargianti, colori. In fondo era solo lei a tarparmi le ali. Ma adesso che non c'era più, cosa mi avrebbe impedito di spiccare il volo? La libertà era a mia completa disposizione, ed io volevo saziarmene fino ad esplodere.
Per fortuna, dopo il primo momento di smarrimento, capii che la sola scomparsa di mia moglie non poteva fare la differenza: dovevo agire! Con calma ovviamente. Io non sono un uomo impulsivo. La mia vita sarebbe cambiata radicalmente, certo, ma piano piano, passettino dopo passettino, con raziocinio e minuziosa attenzione. Non potevo ripetere due volte lo stesso errore: se quel caso fortuito non cambiava le cose di punto in bianco, perché mai avrei dovuto farlo io?
C'era da pensarci, da rifletterci sopra; non era cosa da prendere alla leggera. Avrei elaborato un progetto di vita, un piano sistematico, in grado di rivoluzionare completamente non solo le mie giornate, ma le mie aspirazioni e infine persino me stesso. Ci avrei dedicato anima e corpo, ogni minuto della mia insoddisfacente esistenza, fino a completarlo, a renderlo tangibile e concreto quanto il disegno di un geometra. Solo allora avrei agito, dandogli finalmente vita nella realtà di tutti i giorni.
Da subito Il Progetto si impossessò di me. Vi lavoravo sempre, costantemente, pensandolo, perdendomi nei meandri dei dettagli più insignificanti. Doveva essere perfetto. Non c'era nulla in grado di distrarmi da Lui. La mia vita si trasformò in completa indifferenza verso tutto ciò che non era Lui.
Era come se fossi diventato sordo ad ogni rumore del mondo.
Nulla più mi circondava.
Passavo notti insonni, barricato dentro casa, con gli occhi persi in qualche punto imprecisato del soffitto, intento a sondare qualche nuova opzione da aggiungere al mio Progetto.
"Il progetto è importante", mi sfuggiva talvolta di bocca passeggiando per strada, "Il progetto è davvero importante", e la gente si voltava a guardarmi, quasi sempre con l'aria di chi compatisce un'idiota. Persi il lavoro, gli amici a cui non rispondevo neanche al telefono, persi addirittura il rispetto della mia igiene personale.
Ma non me ne fregava niente.
Tutte quelle cose erano recuperabili.
Ultimato il Progetto ne avrei ottenuto anche di migliori.
E camminavo, camminavo per la città, come un fantasma, scrutando insensatamente gli alti palazzi, i volti per me senza più lineamenti, ognuno così simile all'altro, insignificanti rispetto alla vastità del mio Progetto. Riuscendo ad aggiungervi un nuovo mattoncino, mi prendeva una sorta di autoesaltazione in grado di farmi tremare da capo a piedi.
Purtroppo, ogni qualvolta pensavo di essere vicino al suo completamento, solo una cosa riusciva a distrarmi, a farmi perdere il filo, a rendere vano ogni mio sforzo per dare vita a quel sogno. Un rumore, l'unico che a quanto pare riuscissi ancora a percepire.
Da principio non capii di cosa si trattasse. Sedevo di fronte alla televisione spenta, con le dita invischiate nei capelli, e d'un tratto lo sentii provenire dalle mura. Ricordava il rumore di un rubinetto lasciato incautamente aperto e inspiegabilmente mi distraeva dal mio proposito, logorandomi interiormente con una tale intensità da sentirsene straziati.
Credetti d'impazzire.
Cosa voleva da me? Perché sembrava quasi chiamarmi? Di scatto, senza pensarci, uscii in piagiama e ciabatte sul pianerottolo. Suonai con furia il campanello dell'appartamento accanto.
Ma quando vennero ad aprirmi nessuno seppe spiegarmi l'origine di quel rumore. I ragazzi, credo tutti studenti, mi tranquillizzarono dicendo che non stavano utilizzando la doccia né tantomeno l'acqua in generale. Come se non bastasse la padrona di casa ne approfittò per sbucarmi alle spalle con una pronta minaccia di sfratto. Mi ricordò il ritardo nell'ultima mensilità, ed io a mia volta le ricordai del mio progetto: "Mi dia solo qualche altro giorno, la prego, pagherò; a breve completerò il mio progetto e lei avrà i suoi soldi!".
L'anziana acconsentì; ci conoscevamo da anni ed era la prima volta che venivo meno a un pagamento. Inoltre sapeva della scomparsa di mia moglie, e questo la rabbonì senza indugi. Nei giorni successivi tornai a sentire quel rumore, assiduamente, e quasi sempre quando credevo di aver posto la parola fine al mio amato Progetto. Le sensazioni che lo accompagnavano erano sempre le stesse: frustrazione, ansia, nervosismo. Finché, una notte, affacciatomi sul balcone per sfuggirgli, ne intravidi finalmente l'origine.
Nella palazzina di fronte alla mia, dall'unica finestra illuminata, scorsi una donna che armeggiava vicino al lavabo della sua cucina. Incuriosito, presi un vecchio binocolo e vidi con chiarezza che stava lavando i piatti. Dal rubinetto usciva un getto continuo d'acqua, di sapone ne vedevo ovunque, e le grosse mani della corpulenta massaia si muovevano ritmicamente di stoviglia in stoviglia.
Da prima sorrisi di quella visione, ma avvertii una stretta al cuore quando notai che, una volta finito il suo lavoro, anche il rumore che tanto mi infastidiva era cessato d'incanto. Possibile che fosse quel rubinetto il colpevole? Mi sembrava folle. La distanza era troppa. Come potevo sentirlo?
D'un tratto la donna si girò proprio nella mia direzione, e con aria seria mi fece cenno di raggiungerla. Il binocolo mi cadde di mano per lo spavento. Senza sapere io stesso perché, mi vestii ed uscii raggiungendo in pochi minuti la sua palazzina.
Entrai senza problemi. Sapevo benissimo che gli inquilini avevano il brutto vizio di dimenticarsi il portone aperto. Ricordando che la finestra della massaia era all'ultimo piano, salii le scale come un ossesso, correndo a perdifiato di scalino in scalino.
"Ed il mio progetto?" , pensavo, "Perché corro dietro a questa donna proprio adesso?"
Sul pianerottolo dell'ultimo piano c'erano due porte, una delle quali spalancata. Già dalla soglia potevo vedere la cucina, quasi che fosse l'unica stanza presente in tutto l'appartamento. A forse venti metri da me la massaia mi dava le spalle nuovamente attaccata al suo prezioso lavabo. La vidi aprire quel rubinetto. Il rumore tornò a invadermi di prepotenza le orecchie. Non c'erano più dubbi ormai.
"Cosa fai fermo lì?", mi disse atona, "raggiungimi"
Entrai e mi accostai al suo fianco. Lei sembrava non mi vedesse. Continuava a immergere nell'acqua i suoi piatti, a strofinarli con energia, con ferocia, quasi avesse voluto farli a pezzi. Le mani le tremavano, il viso le grondava sudore, ed in tutto il suo aspetto c'era qualcosa che ricordava il mio stato d'animo.
L'odore di detergente al limone era insopportabile. Ne usava a litri, ne aveva già svuotato svariate confezioni abbandonandole senza cura per terra. Aveva dozzine di spugne, da quelle classiche ai semplici strofinacci di panno, e le cambiava con morbosa indecisione, convinta che una avrebbe funzionato meglio dell'altra.
Mi fece pena quando notai che i piatti, nonostante tutti suoi tentativi, rimanevano misteriosamente sporchi, incrostati di ogni genere di schifezze. Stringendole una spalla la implorai di smetterla, di risparmiarmi, se non la finiva con questa storia non avrei mai potuto ultimare il mio progetto.
"Così hai capito chi sono", mi disse interrompendo solo per un attimo il suo lavoro, "Ma questo non cambia le cose. Devi darmi tempo! Io ce la sto mettendo tutta, ma qua è un vero casino. Lo capisci si o no? Se mi dai tempo posso farcela, riuscirò a lavarli tutti quanti!", aggiunse guardandomi finalmente negli occhi.
Quello sguardo, quel maledetto sguardo.
Quanto somigliava a quello di mia moglie.
Non riuscii a reggerlo più di dieci secondi e infuriandomi le gridai di finirla con questi giochetti, che conoscevamo entrambi la verità e non c'era modo di cambiare le cose. Nel muro adiacente c'era una porta, una sorta di sgabuzzino, e mi ci avventai spalancandola.
"Guarda!", urlai fino a sentirmi male, "Guarda cos'ho combinato! Come pensi di riuscire a lavare questi?"
Dentro quel ripostiglio erano ammucchiate pile e pile di piatti sporchi di sangue. Si allungavano all'infinito, come torri di babele altezzose. La puzza di marcio, di putrefatto, dava il voltastomaco. La massaia li guardava inorridita e dal suo volto potevo intuire che avrebbe voluto nascondere quello spettacolo anche a costo di usare il suo stesso corpo.
"Tu però mi senti ancora" disse con tono di sconforto, "Puoi ancora salvarti, è solo questione di tempo. Se non mi permetti di continuare, non riuscirai mai più a sentirmi; a ricordarti di me."
A quelle parole risi di gusto, buttandomi indietro con tutta la schiena, e in un attimo le fui addosso con entrambe le mani strette sulla gola. "Io non volevo", le dissi mentre si accasciava priva di vita al suolo, "Io non volevo, ma tu mi stavi soffocando."
Da quel giorno il mio progetto procede a gonfie vele. E' ancora soltanto un'idea, ma sono convinto che a breve prenderà forma, regalandomi una nuova fantastica vita. Non c'è nulla che non si possa fare con il solo impegno. Lo ammetto, qualche volta sento nostalgia della donna che lavava i piatti. Di notte mi sveglio di soppiatto, tiro su le coperte lentamente, e a passo felpato mi dirigo verso la cucina. Apro il rubinetto, comincio a strofinare qualche stoviglia, ma per quanto mi impegni so che la magia è passata: lei aveva ragione, non sentirò mai più quello strano rumore. Che fine ha fatto mia moglie? Non è mai tornata. Penso che ormai l'abbiate capito. E' sepolta in giardino: l'ho soffocata insieme alla mia coscienza.