Caro collega
Il tuo profilo si staglia sullo sfondo della finestra, il naso fende lo spazio, l’occhio è fisso sul computer; la cravatta buttata sulla spalla, il vestito blu, elegante, anche se un po’ liso sui gomiti. Penso a tutta la mia esperienza decennale, al mio tacere e acconsentire alla predominanza dell’assistente del capo che finalmente è andata in pensione. Quando è avvenuto, ho portato nuove piante per sostituire quelle che aveva portato via con sé, riordinato l’archivio secondo le mie idee, ripulito e riorganizzato gli armadi; mi sono stampata sulla faccia un sorriso radioso da dedicare al capo e mi sono fermata in ufficio la sera finché lui non usciva. I mesi autunnali sono passati veloci e sereni; poi, a dicembre, mi ha convocato nel suo ufficio e ha annunciato il tuo arrivo; mi ha raccontato che l’argomento della tua tesi di laurea era il nostro prodotto, ha parlato di collaborazione, efficienza, interagibilità, coordinamento degli sforzi e ha concluso augurandosi che la mia disponibilità nei tuoi confronti fosse totale. Sono uscita come un automa e mi sono seduta alla mia scrivania; nessuna segretaria mi avrebbe affiancato e nessun avanzamento era previsto; il mio entusiasmo, la mia esperienza e la mia ambizione non interessavano.
Sei arrivato a gennaio in una giornata fredda e piovosa; laureato, consapevole di te stesso, del tuo aspetto gradevole, della tua preparazione. Ti ho accolto sorridendo e ti ho raccontato che lavoro qui da dieci anni e da qualche mese in completa autonomia; quindi potevo spiegarti il lavoro ed ero pronta a fugare ogni tuo dubbio e incertezza, evitando così sbagli e perdite di tempo. Sorridendo, mi hai risposto che sicuramente avresti portato idee nuove, una ventata di aria fresca che, questo era implicito, mi avrebbe investito, piegato e distrutto; hai parlato della tua tesi, del tuo entusiasmo nel cominciare il lavoro in un’azienda che ti interessava. Ho visto i tuoi denti bianchi e il lampo nei tuoi occhi. Poi è entrato il capo, vi siete stretti la mano guardandovi negli occhi; avete subito instaurato un bel rapporto che si è sviluppato ed è migliorato nel tempo; parlate di calcio e di calcetto, di donne e di ristoranti; manate sulle spalle, battute, strizzatine d’occhio, atteggiamenti che con me lui non ha mai avuto. E quando intervengo nella vostra conversazione per ricordare che esisto anch’io, mi ascoltate con un sorriso condiscendente, impazienti di tornare a parlare tra di voi; mi sento come una bambina che cerca di attrarre l’attenzione dei genitori. Quando c’è qualche problema di lavoro, vi fronteggiate con le mani in tasca, la testa eretta, uniti e solidali; io cerco di intervenire proponendo soluzioni e percorsi, sento la mia voce nel silenzio assoluto, stranamente acuta. Vi guardate divertiti e continuate a dialogare come se avessi detto una sciocchezza da ignorare gentilmente.
Poi, avete cominciato a chiedermi di passarvi le telefonate e di fotocopiare documenti; ho ribadito con il capo la mia esperienza e lui mi ha rassicurato dicendo che lo ricordava bene. Eppure, io mi sento sempre più trasparente e ho archiviato per sempre l’idea di diventare la sua preziosa assistente e di percorrere una strada luminosa verso una posizione solida e sicura. Ieri un’addetta dell’ufficio del personale mi ha convocato; ha descritto l’evoluzione dell’ufficio così prezioso per l’azienda, assolutamente da potenziare; mi ha parlato di te, di quanto sei bravo, competente, motivato. Infine, ha sottolineato la mia esperienza, mi ha ringraziato per la mia disponibilità e mi ha proposto di svolgere un ruolo … come dire … beh, diciamo organizzativo; è basilare che la posta sia smistata con precisione e puntualità, che si risponda al telefono correttamente, che l’archivio sia in ordine. Tutto sommato, faceva parte del mio lavoro da sempre, no? Adesso mi premiavano riducendo il mio carico di lavoro; avrei supportato la struttura. Ho obiettato che avevo una buona esperienza, una laurea; che non era giusto che dovessi sottostare a una persona arrivata da poco più di un anno. Mi sorride paziente; ma non cambia nulla, in realtà, mi spiega che queste mansioni erano svolte dalla collega ora in pensione, non c’è alcuna differenza; posso pensarci? Chiedo. No. E se volessi cambiare ufficio? Sorride, guarda fuori dalla finestra, riporta gli occhi su di me. Le faremo sapere, dice. Torno in ufficio, tu mi sorridi mentre stampi dei documenti; sono sicura che sai tutto. Mi preparo un tè per calmare il dolore allo stomaco. Dopo una mezz’ora, il capo mi convoca; sorridente e paterno, mi assicura che io diventerò sempre più importante, il lavoro deve scorrere senza intoppi e io sono in grado di garantirlo. E non è certo da invidiare il mio povero collega che sarà afflitto da tutte quelle mansioni noiosissime (si ricorda?) che prima erano di mia competenza. D’altra parte, non si sente di consigliarmi di cambiare ufficio; qui conosco perfettamente il lavoro, i clienti, i fornitori, tutti gli interlocutori, insomma; altrove, mi troverei in un ambiente nuovo e dovrei imparare una nuova mansione. Ma io voglio provare e lui mi congeda scrollando la testa.
Nei giorni successivi, faccio dei colloqui; parlo con la responsabile dell’ufficio marketing che si dispera perché aveva richiesto una ragazza giovanissima e senza laurea e si ritrova davanti una quarantenne laureata. Poi vado nell’ufficio controllo di gestione dove rifiutano la mia candidatura perché cercavano un neolaureato. Dopo una serie di esperienze similari, rinuncio.
Ora, sono nel mio ufficio che archivio, smisto la posta e organizzo le riunioni; e mentre preparo il caffè, penso ai miei sogni nel cassetto e al capo che è stato prepensionato a causa di un ben escogitato sgambetto; eh, sì, hai lasciato trapelare un’inefficienza e poi qualche inesattezza; qualche parola buttata là alle persone giuste, alleanze efficaci e … ora sei tu il mio capo. Oggi è arrivato il nuovo assistente, laureato, occhi troppo scuri, troppo alto e, soprattutto, troppo raccomandato. È la morte in azienda che prima o poi arriva per tutti.