
Papa Francesco ? Era un “brav’omo”. Mi dispiace. Così diverso da quelle "vecchie volpi" della curia vaticana. A Roma se diceva, forse ancora si dice: “ar peggio nun ce mai fine”. Chissà li cardinali chiusi ner conclave chi scejeranno come successore.
La plebe de Roma de li secoli scorsi, abituati a li soprusi dello Stato Pontificio, de li cardinali, e de li vescovi, quanno moriva er pontefice dicevano: “morto un papa se ne fa n’antro”, perché per loro non cambiava nulla.
Ar proconsole de Dio, er papa, il poeta romanesco Giuseppe Gioacchino Belli dedicò il sonetto titolato “La vita da cane”, che scrisse il 31 dicembre 1845:
“Ah sse chiam’ozzio er zuo, brutte marmotte?
Nun fa mai gnente er Papa, eh? nun fa gnente?
Accusì ve pijassi un accidente
Come lui se strapazza e giorn’ e notte.
Chi pparla co Dio padr’onnipotente?
Chi assorve tanti fiji de miggnotte?
Chi manna in giro l’innurgenze a bòtte?
Chi va in carrozza a binidì la gente?
Chi je li conta li quadrini sui?
Chi l’ajuta a creà li cardinali?
Le gabbelle, pe dio, nu le fa lui?
Sortanto la fatica da facchino
de strappà ttutto l’anno momoriali
e buttalli a ppezzetti in ner cestino!” parafrasi: Ah, si può chiamare ozio il suo (del Papa), brutti fannulloni? Non fa mai niente il Papa, eh? non fa niente? Prendesse a voi un accidente, così come lui si affatica giorno e notte. Chi parla con Dio padre onnipotente? Chi dà l’assoluzione a tanti farabutti? Chi emana indulgenze a quintali? Chi se ne va in carrozza a benedire la gente? Chi fa la fatica di contare i suoi quattrini se non egli stesso? Chi lo aiuta a nominare i cardinali? Le tasse, perdio, non le decide lui? Soltanto la fatica da facchino di stracciare suppliche tutto l’anno e di buttarle a pezzetti nel cestino.
Qualche anno prima, il 26 febbraio 1843, Belli scrisse il sonetto titolato:
“L’occhi der papa” “Chi? Er Papa? Ecco la prima cosa che ne sento.
Propio lui?! Un zant’omo come quello
Pò avé un par d’occhi da mette spavento
Manco fussi un cagnaccio de macello?!
So che quann’era frate ar zu’ convento
L’ho sservito sempr’io da scarpinello,
E nun ciò ttrovo mai sto guarda mento
Che m’abbi fatto arivortà er budello.
Ma già ttu ppe un’occhiata che tte danno
Un rospo, ‘na tarantola o ‘na sorca
Te ppisci sotto e scappi via tremanno.
Sai ch’edè ar più sta pavuraccia porca?
E’ c’un Papa tiè ssempre ar zu’ commanno
L’archibbuci, le carcere e la forca".
Parafrasi: Chi? Il Papa? Ecco, è la prima volta che sento questa notizia. Proprio lui?! Un sant’uomo come quello può avere un paio d’occhi che incutono spavento neanche fosse un cagnaccio che sta di guardia al macello?! Io so che quando era frate nel suo convento sono stato sempre io il suo calzolaio, e non ho mai trovato questo modo di guardare che mi abbia fatto rivoltare l’intestino. Ma già, tu sei uno che per un’occhiataccia che ti danno un rospo, una tarantola e un topaccio ti pisci sotto e scappi via tremando. Sai che cos’è al più questa pauraccia porca? E’ che un Papa tiene sempre sotto il suo comando gli archibugi, le carceri e la forca.
In questo sonetto c’è il sarcasmo de quella che era la plebe de Roma.