Inferi o inferno ? sono due luoghi distinti e separati.
Il sostantivo plurale Inferi deriva dall’aggettivo latino infĕrus (= infero, che sta sotto).
In ambito cristiano i biblici inferi simboleggiano il luogo del soggiorno dei morti. Vi discese anche Gesù dopo la sua morte sulla croce. La sua catàbasi (= discesa) prima della risurrezione.
Pietro, nel giorno di Pentecoste, durante un suo discorso agli “uomini di Israele” cita il Salmo 16 per proclamare la risurrezione di Cristo: “Tu non abbandonerai la mia vita negli inferi, né permetterai che il tuo Santo subisca la corruzione” (Atti 2,27; Salmo 16,10).
Gli inferi non vanno confusi con l’inferno, che è sede della dannazione eterna. Coloro che ci si trovano sono privi della visione di Dio.
Sinonimi di Inferi sono l’ebraico She’ol, il greco Ade e l’Aralla mesopotamico: luoghi dei morti e delle ombre, soggiorno indifferenziato di tutta l’umanità, di giusti e peccatori.
La mitologia greca narra che il dio Hádēs (= Plutone) ricevette la sovranità dell’Ade quando l'universo fu diviso con i suoi due fratelli Zeus e Poseidone, che ottennero rispettivamente il regno del cielo e del mare.
Ade e Cerbero, il cane con tre teste
L'inferno, invece, è un luogo di sofferenza e di punizione per le anime dei peccatori. Ci sono gli individui reprobi dopo il giudizio finale di Dio. Questo luogo è una allegoria per descrivere lo stato di isolamento e desolazione che viene dalla separazione del peccatore da Dio.
Lo scrittore francese Georges Bernanos (1888 – 1948) nel suo romanzo “Monsieur Ouine”, pubblicato nel 1943, scrisse: “Si parla sempre del fuoco dell’inferno, ma nessuno l’ha visto. L’inferno è freddo”.
Ancora Bernanos, nel suo capolavoro “Diario di un curato di campagna” spiega il perché di quel freddo infernale tramite la voce del protagonista: “L’inferno è non amare più”.
Lucrezio, scrittore di epoca romana (98 a. C. circa – 50 a. C. circa), nel suo “De rerum natura” scetticamente osservava: “I supplizi che dicono ci siano nel profondo Acheronte sono già tutti nella vita” (III, 978-9).
Altri autori e testi sono citati nel libro titolato “Fuoco e fiamme”, scritto da Matteo Al Kalak, docente di “Storia del cristianesimo e delle Chiese nell’università di Modena e Reggio Emilia.
L’autore descrive le scene infernali con tutte le spezie stilistiche del racconto, ricostruisce “storia e geografia dell’Inferno”, iniziando con la biblica Genesi e la frase “In principio …”.
Il realismo descrittivo si miscela con la metafora spirituale.
Come simbolo teologico dell’Inferno Gesù cita la Geenna, una valle scavata dal torrente Hinnom sul lato meridionale del monte Sion, usata nell’antichità a Gerusalemme come inceneritore dei rifiuti.
Un capitolo del citato libro di Al Kalak è dedicato alle “porte degli inferi”, che la tradizione fa varcare al Cristo risorto. Tale “immagine” è collegata al passo evangelico riguardante il “primato di Pietro”: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi (in greco “dell’Ade) non prevarranno su di essa” (Matteo 16, 18).
Varcare quelle soglie alla maniera dantesca come monito ai viventi.
Nel citato libro il capitolo finale è titolato “Quel che resta dell’inferno”… nel nostro tempo.
Nel Catechismo della Chiesa cattolica, emanato nel 1992, c’è l’appello alla conversione, essendo “la pena principale dell’inferno la separazione eterna da Dio” (n. 1035).
Ovviamente nell’apparato immaginifico ci sono presenze e istanze molteplici: la figura di Satana, la misericordia divina, l’apparente eccesso della pena infernale in eterno.
Fin dall’antichità cristiana si scontrano due tesi opposte:
quella “infernalista”, sostenuta da Agostino vescovo di Ippona, dal teologo Tommaso d’Aquino, secoli dopo dal teologo francese Jehan Cauvin (in Italia conosciuto come Giovanni Calvino), che fu con Lutero il riformatore religioso del cristianesimo protestante nella prima metà del ‘500. Dal suo nome deriva il termine “calvinismo”. Essi affermavano la certezza di un inferno popolato da dannati.
L’altra tesi, detta dell’apocatastasi, parola polisemica derivata dal sostantivo greco apokatástasis. In ambito religioso e filosofico vuol significare “ritorno allo stato originario”, in senso salvifico: “riconciliazione finale universale”, nel linguaggio teologico “il ristabilimento di ogni cosa nell’ordine voluto da Dio, alla fine dei tempi, per cui l’inferno potrebbe essere vuoto, senza peccatori.
Nel cristianesimo il concetto è presente in un versetto degli “Atti degli apostoli” (3, 21): “Egli dev'esser accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione (apokatastàseos) di tutte le cose, come ha detto Dio fin dall'antichità, per bocca dei suoi santi profeti”.
Giustizia e misericordia divina sono, quindi, in contrappunto col tentativo di proporre almeno “il dovere di sperare per tutti”.
Concludo citando lo scrittore cristiano inglese Clive Staples Lewis e il suo libro titolato: “Lettere di Berlicche”, pubblicato nel 1942. L’autore ammoniva “che la via più sicura per l’inferno è quella graduale: la discesa dolce, morbida sotto i piedi, senza svolte improvvise, senza cartelli indicatori”, in pratica senza l’incubo del fuoco e delle fiamme. :pentitevi: