Autore Topic: Scontri di potere  (Letto 352 volte)

Doxa

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Scontri di potere
« il: Agosto 20, 2024, 10:27:48 »
1783:  a Palermo, nella grande sala del Palazzo dei Normanni, c’erano i rappresentanti del Parlamento siciliano: principi e marchesi, conti e baroni. Uno di essi si rivolse al viceré di Sicilia, il marchese Domenico Caracciolo, riformatore e illuminista, dicendogli: “Eccellenza, il popolo lo vuole”.

Il marchese Caracciolo con voce imperiosa rispose loro: “Quale popolo ? Quello che comandate voi, quello che è vostro schiavo ?”.

“Il popolo si diverte e spende, ma in cosa ? In veri e propri baccanali. Altro che festa e festino, sembra arrivato ogni volta il regno di Satana …”.

Il rimprovero del marchese Caracciolo lasciò silenti i nobili presenti.

Ma dopo,  re Ferdinando IV di Borbone, re delle due Sicilie, accolse la petizione dei nobili palermitani e concesse che la festività in onore di Santa Rosalia durasse, come da tradizione, 5 giorni anziché 3, come sobriamente pretendeva il viceré.

All’inizio  del caldo  e afoso mese di luglio 1783, la popolare festa religiosa in onore di Santa Rosalia si trasformò in scontro di potere, da una parte gli “aristocratici arroganti e pieni di pregiudizi, arretrati nella gestione del potere, come nel Medioevo”, dall’altra l’uomo che proprio il re Ferdinando IV aveva mandato a Palermo per fare le riforme, a cominciare dal fisco (utili a far uscire l’isola da una drammatica condizione di arretratezza economica e sociale) e limitare la strapotere  dei baroni, ostili a Napoli e arroccati nei privilegi feudali.

Modernità contro conservazione retriva. Diritti contro poteri capricciosi e irresponsabili. Leggi dello Stato contro il “merum et mixtum imperium”, locuzione latina medievale, allude  alla delega  del sovrano ad un feudatario del  potere di amministrare la giustizia nel  feudo.

Il feudatario, deteneva il potere assoluto sull'intero suo territorio, ad eccezione dei beni della Chiesa, che erano immuni dalla sua giurisdizione.

I contadini rimanevano umiliati nei vincoli dei servi della gleba.

E’ questo lo sfondo in cui Silvana La Spina ambienta il suo romanzo titolato: “L’ombra dei Beati Paoli” (edit. Neri Pozza).

Ha come protagonista “l’uomo del viceré”, il barone Maurizio di Belmonte, bravo investigatore e persona gentile, che Caracciolo, dopo un periodo come diplomatico nelle corti di Londra e Parigi (dov’era diventato amico di Voltaire e di altri illuministi) aveva salvato dall’angoscia del “cupio dissolvi” e portato con sé a Palermo, quasi all’alba della Rivoluzione francese.

La trama del romanzo:  il marchese Camille de Gubernatis viene assassinato,  alcune lettere minacciano la nobiltà palermitana e tra alcuni aleggia il dubbio del ritorno di una setta di giustizieri, quella dei “Beati Paoli”.

L’autrice del romanzo descrive anche le tensioni politiche e l’impetuosa forza di rinnovamento dell’Illuminismo, ma per responsabilità della corte borbonica a Napoli e le resistenze reazionarie della nobilità siciliana, si perde l’occasione del cambiamento, la possibilità di interrompere gli antichi privilegi nobiliari ed ecclesiastici.

Il re Carlo III di Borbone avrebbe voluto modernizzare il suo regno. Il suo Segretario di Stato, Bernardo Tanucci, ne rafforzava le convinzioni. Dialogavano di commerci e relazioni internazionali, scienze, nuove idee sul potere, i diritti e i doveri.

Poi Ferdinando IV ereditò le ambizioni del padre, Carlo III,  e Tanucci decise di impiegare l’intelligenza e il saper fare di Caracciolo per rinnovare anche la Sicilia. Venne studiata la riforma del catasto e il miglioramento delle condizioni sociali della povera gente. Ma nobili e clero non volevano i cambiamenti,  rifiutavano il pagamento delle tasse  sui loro grandi feudi e sui lussuosi palazzi e conventi.  E la volontà riformista del re Ferdinando si attenuò. L’influenza di Lord Acton sulla corte borbonica, in nome degli interessi della Gran Bretagna, bloccò il rinnovamento.

Leonardo Sciascia nel suo romanzo “Il consiglio d’Egitto” poneva sulle labbra sorridenti del viceré Domenico Caracciolo, in procinto di lasciare Palermo nel 1786 perché richiamato a Napoli come primo ministro, il seguente ambiguo quesito rivolto al suo amico avvocato Francesco Paolo Di Blasi: “Come si fa ad essere siciliani ?”
« Ultima modifica: Agosto 20, 2024, 21:22:49 da Doxa »