I miei avi si accoppiavano col sole e partorivano ombre, figli che li accompagnavano come cani stretti al guinzaglio e che morivano col giorno insieme ai propri genitori.
I miei figli, invece, sono i minuti, li partorisco da sola, uno alla volta, e muoiono tutti, l’uno alla nascita dell’altro, prematuri ed acerbi come frutti che marciscono sul ramo. Io vado avanti, non mi volto nemmeno a guardarli, me li lascio cadere alle spalle e ignoro il loro ticchettio d’agonia, che è come lo scoppio di una bolla sulla superficie dell’acqua sopra uno dei miei figli che annega.
La mia esistenza coincide con la morte della mia discendenza, è per questo che non posso fermarmi, al capolinea nessuno mi aspetta: io sono il viaggiatore, il treno, i binari e le stazioni. Io do la vita e la tolgo, perfino le stelle cadono davanti a me. Che io sia Dio?
Tutti mi seguono, corrono per raggiungermi, eppure la mia velocità non muta, la ripetitività sfuma nella lentezza. Tutti mi guardano, mi portano con sé, sono il protagonista ed il regista dei loro pensieri, e loro sono i maggiordomi al mio servizio.
I miei antenati erano radicati al loro posto come alberi alla terra e un minimo spostamento ne causava la morte o, peggio, la pazzia. Io sono in moto perpetuo, giro in un mondo che ha per centro il mio stesso cuore, e il mio moto è la mia vita, sono come un pesce, se mi fermo perdo il respiro e muoio.
Ecco perché ora ho paura: man mano che i miei figli muoiono, io divento sempre più pesante. Lo sento. È il fardello delle loro anime che mi rallenta? Se avessi un petto su cui posare questo peso, sentirei il fiato troncarsi; se il fiato avesse braccia, le vedrei tese verso di me in cerca di aiuto. Se avessi piedi, li vedrei rallentare, ogni passo più fiacco del suo gemello, come se le suole si fossero impregnate di polvere di ferro. Un ferro che, se avesse occhi, bramerebbe i miei piedi, come colui che è stato avvelenato brama l’antidoto.
Ma io non ho polmoni che possano privarsi d’aria, non ho piedi che possano stancarsi o desiderare una sosta per le troppe vesciche. Non ho neanche un viso su cui graffiare le rughe di questa paura. È una paura che ho visto tante volte, innumerevoli volte sulle facce degli umani, facce troppo gonfie, o troppo secche, facce screziate di rughe o vellutate di giovinezza, facce bollenti di rabbia o zittite di rassegnazione, facce tutte rivolte a me, come se io fossi stata il loro Dio.
No, io non sono Dio. Mi sto fermando. I miei figli vogliono vivere a mie spese, ognuno più a lungo del fratello che l’ha preceduto, finché l’ultimo minuto vincerà su tutti, non ci saranno altri fratelli a mozzargli l’esistenza, e lui resterà là, immobile ed eterno, mentre io sarò morta a causa della sua immobilità.
I miei antenati morivano ogni sera, ma risorgevano il giorno successivo. E io? Vedo i loro spiriti ridere della mia boria che si sfalda sotto il ticchettio dei minuti.
Mi sto fermando, sto morendo, qualcuno mi aiuti.
La mano è apparsa ed ha girato una rotellina che non sapevo neanche di possedere, e io sono rinata. Ho ritrovato le mie forze, nessun figlio mi sopravvivrà. Non sento più gli spiriti dei miei avi godere della loro rivincita. Ma chi mi ha ridato la vita?
Il mio maggiordomo, un servo. Lo ha fatto con noncuranza, per caso, si è tolto un pilucco dalla manica, mi ha vista sfiancata e moribonda, e mi ha salvata. Dunque non sono non sono un dio, ma dipendo dal mio servo. Nessuno mi guardava per adorarmi, nessuno provava soggezione in mia presenza. Mi guardavano solo per controllarmi; per vedere se svolgo ancora il mio compito. Ma quale è questo compito?
Allora la paura che vedevo nei loro volti non proveniva da me, ma da qualcosa che io rappresento. Sono solo un simbolo, niente altro? Sono un significato che non conosce la propria origine? A cosa servo, io?
Ho paura.