Dal latino “
ad-mirari” ci è giunto il verbo ammirare e il sostantivo ammirazione.
Entrambi i lemmi inducono l’individuo a riconoscere la presenza di qualità o virtù particolari in una persona che merita stima.
Si può ammirare un collega che svolge con sapienza il nostro stesso lavoro e lo si considera un esempio da seguire, motiva ad imparare da lui. In tal caso l’ammirazione fa riconoscere qualità o virtù importanti nell’altro.
Quando invece ammiriamo qualcuno che non conosciamo, di solito gli attribuiamo delle qualità che non sempre corrispondono alla realtà e che, a volte, arriviamo persino a idealizzare. Per esempio un attore, un cantante famoso; Ghandi o Nelson Mandela sono due personaggi da ammirare per la loro lotta e perseveranza.
Anche l’innamoramento induce ad ammirare il/la partner.
Pure la natura può suscitare ammirazione: un tramonto, un’alba, un paesaggio, ecc..
Nell’antichità di tutt’altra opinione erano Cicerone con la massima:
“Nil admirari” (vedi Tusculanae disputationes, III, 14, 30) ed Orazio che afferma l’importanza del “Nil admirari” (Epistulae 1, 6, 1). Tale detto fu attribuito da Plutarco a Pitagora.
L’invito al “Nil admirari”, a non lasciarsi sorprendere e vincere dalla bellezza, dal coraggio o dal genio, fu accolto dal filosofo Nietzsche ma criticato dal filosofo romeno Cioran, secondo il quale l’invito a non ammirare niente e nessuno per tutelare la propria libertà è atarassia isterica.
L’ammirazione è di solito unita alla gratitudine, al desiderio di imitazione per i valori incontrati o per le espressioni di bellezza contemplati.
Al contrario dell’invidia, l’ammirazione ci connette con il fascino degli ideali.