Autore Topic: 03. Soma e psiche - Monaca.  (Letto 199 volte)

victor

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03. Soma e psiche - Monaca.
« il: Settembre 08, 2020, 10:32:15 »
03. Soma e Psiche.

Era mia intenzione inserire una foto del 1943 come seconda puntata di queste mie riflessioni, ma non sono riuscito. Ci proverò ancora, sperando nell’aiuto di qualcuno.

Passo alla terza puntata.

Ho chiuso la prima puntata dicendo che a 16 anni ci fu un evento che di colpo mi fece rendere conto che non ero più un ragazzo. Ecco la storia.

Il titolo che ho dato è “Monaca”.

Era la fine di giugno … avevo appena compiuto 16 anni … avevo appena completato gli esami di 5° ginnasio … Quegli esami all’epoca erano d’obbligo per accedere al liceo classico.
Come ogni anno, finita la scuola, mio padre e mia madre mi avevano portato da mio nonno Tommaso e da mia zia Maria.

Era in corso la trebbiatura del grano ed io tutte le mattine accompagnavo mio nonno che si recava in campagna a controllare i lavori. Rientravamo a casa insieme la sera, dopo che tutto il grano trebbiato durante la giornata era stato riposto nei magazzini.

Il grano veniva trebbiato in maniera artigianale. Sull’aia i cavalli lo calpestavano con i loro zoccoli frantumando il gambo, in pratica separavano le spighe dalla paglia. Poi, rimossa la paglia con i forconi, al centro dell’aia restavano le spighe che venivano a loro volta frantumate da altri cavalli che trascinavano un grosso masso liscio in maniera da separare i chicchi di grano dalla pula (la sottile pellicola che avvolge ogni chicco).
Poi, con le pale, questo miscuglio veniva lanciato in alto in maniera che la brezza pomeridiana separasse la pula, più leggera, trasportandola di lato, mentre i chicchi di grano più pesanti, ricadevano al centro.

Completato questo lavoro, il grano veniva raccolto, insaccato e in groppa ai cavalli trasferito nei granai.
Come si può evincere dal mio racconto i cavalli erano un elemento essenziale per portare a compimento tutto il ciclo di produzione del grano: dalla aratura iniziale del terreno, alla semina, dal trasporto dei covoni dopo la mietitura, fino a questa fase finale della trebbiatura.

Nella campagna di mio nonno c’erano diversi cavalli. Anche mio nonno ne teneva uno nella sua stalla, era una giumenta e si chiamava Eva, e la utilizzava per recarsi in campagna. Al mio arrivo mio nonno aveva fatto portare un secondo cavallo affinché io lo potessi accompagnare nei suoi spostamenti.
Io a quel tempo pensavo che tutti i cavalli fossero di mio nonno, ma poi, con il tempo e con le mie riflessioni mi sono reso conto che non era esattamente così. Ritengo che anche don Salvatore, il suo uomo di fiducia e sovrintendente alla campagna, e alcune altre persone fossero parzialmente proprietari di quei cavalli.

In genere ogni anno venivano fatte ingravidare tre giumente che partorivano poco prima dell’estate nella stalla di mio nonno sotto il suo controllo. Io non ho mai assistito a nessuno di questi parti in quanto avvenivano sempre prima del mio arrivo.

I puledri, dopo la nascita, venivano allattati per un anno dalla madre e fatti crescere in uno stato semi brado. Dopo la trebbiatura, avendo già compiuto un anno si provvedeva alla loro “doma”. Se necessari al lavoro venivano trattenuti nella fattoria, se, invece, erano in esubero, venivano venduti in occasione della fiera in una città vicina, l’ultima domenica di settembre.

Quell’anno, tra i puledri, ce n’era una bellissima. L’avevano chiamata “Monaca” perché aveva il mantello tutto nero e lucido ed una stella bianca in fronte. Era veramente splendida ed io l’ammiravo quando correva e sgroppava libera attorno all’aia. Era un animale bellissimo, libero e selvaggio …

Un giorno mi trovavo vicino a mio nonno mentre lui con don Salvatore discutevano sulla organizzazione della “doma” dei tre puledri. Durante una pausa del loro discorso mi rivolsi a mio nonno e gli chiesi “Me la fa domare a me, Monaca?”.
Ritengo che la mia domanda lo abbia colto di sorpresa perché rimase un attimo interdetto, poi rivolse lo sguardo verso don Salvatore e sicuramente i loro occhi si parlarono.

Poi si rivolse verso di me e mi chiese “Te la senti?”
“Posso provare” risposi.
“No!” rispose perentorio “non si può provare! O te la senti, oppure non te la senti!”
In quel momento, punto nell’orgoglio, gonfiai il petto e dissi “Me la sento!”

Allora mio nonno guardò contemporaneamente me e don Salvatore e disse “Devi fare tutto quello che don Salvatore ti dirà! Niente di più e niente di meno!”
Mio nonno non sprecava le parole. Ogni sua parola aveva un profondo significato e doveva essere eseguita alla lettera! Alla perfezione! Non parlammo più dell’argomento.

La sera, mentre eravamo in casa bussarono al portone. Era una cosa strana, in genere la sera non veniva nessuno a disturbare. Vincenza, la donna di servizio, si affacciò alla finestra e rivolta verso mio nonno disse con sorpresa “È don Ciccio!” Mio nonno tirò fuori dal taschino del suo gilet la chiave del portone e le disse di andare ad aprire.
Tutti ci guardavamo sbalorditi, ma nessuno fiatava, nessuno osava chiedere spiegazioni. Don Ciccio entrò con il cappello in mano e salutò mio nonno dicendo “Voscenza benedica”.

Mio nonno nel frattempo si era alzato e si era diretto verso “la stanza di sbrigo” (così era chiamato il suo studio dove riceveva le persone) e nel frattempo fece segno a me di seguirlo.
Don Ciccio aveva posato per terra la sua cassetta e uno alla volta tirava fuori i suoi attrezzi. Mio nonno mi fece segno di sedere dicendo “Ti prende la misura degli stivali”.

Senza fiatare ubbidii … e capii …
Capii che da quel momento non potevo più tornare indietro … Fu una sensazione terribile! … Una terribile avventura mi attendeva! … E in quel momento mi sentii “tremare le vene e i polsi” come racconta Dante, quando, assieme a Virgilio, si accingeva a varcare la soglia dell’Inferno.

L’indomani mattina quando arrivai con mio nonno in campagna don Salvatore mi diede una carota cui erano ancora attaccate le foglie verdi del gambo e mi disse di portarla a Monaca che scorrazzava libera nei dintorni. E così, ogni giorno, a più riprese, mi dava delle verdure fresche da darle da mangiare.

Dopo alcuni giorni mi diede una zolletta di zucchero (come se la fosse procurata a quell’epoca non lo so, la guerra era finita da poco e l’abbondanza non si vedeva neanche all’orizzonte). Mi spiegò che dovevo tenerla nascosta e soltanto se Monaca veniva spontaneamente a cercarmi potevo dargliela.
Così feci e, mentre passeggiavo per il terreno con aria indifferente essa si avvicinò lentamente a me e cominciò a sfregare il suo muso contro la mia spalla. Fu a quel punto che le diedi la zolletta … e scoprii che eravamo diventati amici …

Una sera, uscendo in piazza, mi procurai dal dolciere alcune zollette di zucchero e il giorno dopo le mostrai a don Salvatore. “Conservale” mi disse “ci serviranno più avanti!”. E così feci. Le parole di mio nonno “devi fare quello che lui ti dice … niente di più e niente di meno …” risuonavano ancora nelle mie orecchie.

La trebbiatura volgeva al termine e gli operai cominciavano ad approntare i recinti per la “doma”.
Finita la trebbiatura mio nonno sospese i suoi viaggi in campagna ed io mi ci recavo tutti i giorni da solo.

Dovevo insegnare a Monaca a girare per il recinto trattenuta da una lunga briglia e ad ubbidire alla mia voce: “Al passo … al trotto … al galoppo … alt …”. E la mia voce spesso veniva accompagnata dallo schiocco della frusta oppure dalla zolletta di zucchero (mio nonno me ne aveva fatto comprare una confezione intera nella drogheria di Rasano).
Questo lavoro di addestramento era estenuante. Durava tutta la mattinata sotto il sole. Ma don Salvatore era sempre accanto a me, con i suoi consigli e i suoi suggerimenti, non mi lasciava un istante.

Quell’anno la procedura della “doma” era stata modificata per causa mia, sarebbe stata fatta con la sella e non “a pelo” (cioè domando il cavallo senza sella). Questa modifica comportava una settimana di lavoro in più, ma il cavaliere che domava il cavallo correva meno rischi.

Per tutta la settimana i cavalli furono addestrati a girare per il recinto con la sella e ovviamente all’inizio si ribellavano e scalciavano. E io dovevo tenere a bada Monica, che mi strattonava da tutte le parti, con la frusta e con la briglia ed a gratificarla alla fine con lo zuccherino.

Don Salvatore era sempre al mio fianco, non mi lasciava un istante. Mi diceva quando usare il “dolce” e quando il “brusco”. E mi spiegava che il brusco, quando veniva usato, doveva essere “duro”, ma proprio “duro” e se necessario anche cattivo!

Il cavallo imbizzarrito andava sfiancato, vinto per esaurimento, ma non dovevo mai abusare della mia superiorità, della mia forza, se non era assolutamente necessario … Regole dure, apparentemente anche crudeli, ma dalle quali non bisognava mai farsi prendere la mano … e che alla fine dovevano sempre essere temperate dal “dolce”. Insegnamenti importantissimi, impartiti per domare un cavallo, ma che mi sono serviti anche nella vita! …

Finalmente arrivò il gran giorno!

Mio nonno quella mattina venne in campagna di buona mattina e si mise a controllare che tutto fosse perfettamente in ordine.
Quando fu il momento di sellare Monaca si avvicinò al chiuso dove era trattenuta e fu lui a stringere e serrare con le sue mani le cinghie che avrebbero sostenuto la mia sella.

Quando tutto fu pronto don Salvatore mi fece un cenno con il capo. Io ero già sullo steccato e saltai in groppa, mio nonno da un lato e don Salvatore dall’altro infilarono immediatamente la punta dei miei stivali nelle staffe mentre due operai aprivano il cancello … Monaca saltò fuori con un gran balzo …
“Sfiancala! … sfiancala! …” mi gridò don Salvatore … e io affondai gli speroni nei suoi fianchi … e fra l’altro questa manovra a tenaglia delle mie gambe serviva egregiamente per aiutarmi a restare saldo in sella …

Furono minuti … interminabili … terribili … poi … la violenza delle sgroppate e i salti cominciarono ad affievolirsi nella loro intensità … e alla fine Monaca si fermò sconfitta … in mezzo al recinto … abbassò il collo e la testa in segno di resa … ma sbruffava ancora bava e schiuma dalla bocca e dalle froge …

I miei speroni non premevano più sui suoi fianchi … la carezzai sul collo … e “Vai!” le dissi … e poiché essa non si muoveva … “Vai … vai …” ripetei gridando a gran voce e strattonando le briglie … e Monaca si mosse … facemmo un paio di giri al passo e ci fermammo al centro del recinto …

Subito don Salvatore ed altri due uomini si accostarono a noi per bloccare eventuali intemperanze residue dell’animale … Tutti guardavano in silenzio … credo che trattenessero anche il respiro …

Mentre don Salvatore teneva ben saldo con la mano sinistra il morso dell’animale mi porse il braccio destro e rivolto a me disse “Vossia ora può scennere …”
Lo guardai … non capivo …
“Vossia ora può scennere …” ripeté invitandomi a scendere da cavallo.

Quelle parole mi sconvolsero più della sgroppata sul dorso di Monaca …
Come? … fino a poco prima mi aveva dato del “tu” … “Sfiancala … sfiancala …” mi aveva gridato ed ora mi dava del Vossia? …”

Era una cosa che assolutamente non mi aspettavo … Sapevo bene cosa tutto ciò significasse … se mio nonno era Voscenza cioè “vostra eccellenza” … e a me ora dava del Vossia … cioè “vostra signoria” … tutto d’un tratto riconosceva in me una autorità seconda soltanto a quella di mio nonno!

Questo pensiero era assolutamente sconvolgente …
Ma contemporaneamente esaltava il mio orgoglio!
Era un riconoscimento che mi ero conquistato sul campo!

Mi resi conto che da quel momento la mia vita sarebbe stata stravolta … mi resi conto che di colpo ero diventato adulto … e contemporaneamente … mi resi conto che da quel momento non dovevo … non potevo essere più un ragazzo …

Aiutato da don Salvatore scesi da cavallo … Senza apparire il suo forte braccio mi sorreggeva e impediva alle mie gambe di farmi crollare per terra in quanto si era esaurita tutta l’adrenalina scaricata sia per lo sforzo fisico della “doma” che per lo shock psicologico.

Ci dirigemmo verso mio nonno il quale, mi poggiò una mano sulla spalla e disse “Bravo, ce l’hai fatta”. Mille parole non avrebbero potuto avere per me un significato superiore a quel gesto … chinai il capo in silenzio …
Non ci furono applausi … non ci furono abbracci … non ci furono parole inutili …

Don Salvatore, reggendomi ancora con il suo forte braccio mi accompagnò verso le case … uomini e ragazzi al mio passaggio si facevano da parte e chinavano il capo …

Entrati in casa accostò una sedia al tavolo e mi fece sedere … donna Concetta, sua moglie, arrivò subito con un bicchiere in mano e un fiasco di vino … Don Salvatore lo riempì fino all’orlo e lo poggiò sul tavolo davanti a me …

Gli feci cenno di sedere … si scoprì il capo e si sedette di fronte a me … con la mano tremante presi il bicchiere e lo portai alle labbra … ne bevvi alcuni sorsi … il vino era ottimo (sicuramente era il migliore che avevano in casa) ed era fresco … avevo bisogno di rinfrescare la mia gola e di assorbire energia …

Poi, don Salvatore si alzò e con la coppola in mano disse “Vossia mi permette? …” Mi chiedeva il permesso di allontanarsi in quanto la sua presenza era necessaria fuori. Annuii con un cenno del capo …

Ero rimasto solo nella grande stanza … anzi no! … in un angolo lontano, con le spalle al muro, con la testa china e con gli occhi bassi, c’era Peppina, la figlia di don Salvatore, un anno più piccola di me …

Sussurrai il suo nome … alzò gli occhi … le feci cenno di avvicinarsi … si avvicinò fino a circa due metri dalla mia sedia, dove si arrestò con il capo chino …

Ci guardammo, ma nessuna parola uscì né dalle sue labbra, né dalle mie … ma sono assolutamente certo che lo stesso turbinio di pensieri e di ricordi che in quel momento passava per la mia mente, passava anche nella sua … erano una infinità di ricordi comuni … fino a due settimane prima ci eravamo rotolati insieme felici e spensierati sull’aia in mezzo alla paglia … ora … di colpo … un muro altissimo … invalicabile … era stato innalzato tra noi … e ci separava …

Ad un tratto lei volse il capo e scappò via singhiozzando …

Un mondo … un mondo che per me era stato bellissimo … e immagino anche per lei … di colpo si era chiuso … il mondo della gioventù … il mondo della spensieratezza … il mondo di una reciproca innocente attrazione … era finito! … era finito per sempre! …

Dopo un poco con il dorso della mano asciugai le lacrime che erano uscite dai miei occhi, mi alzai e uscii fuori all’aperto.

Quanto tempo era trascorso non lo so. Arrivai nello spiazzo. Mio nonno era già andato via. Gli altri due cavalli erano già stati domati. Monaca era legata ad un palo, vicino al recinto. Mi avvicinai, cercai in tasca una zolletta di zucchero, glie la diedi e la carezzai sul collo, non reagì.

Immaginai che anch’essa, come me, in quel momento si rendeva conto che anche il suo vecchio mondo era finito e ne sarebbe cominciato un altro … uno tutto nuovo …

Tornai da don Salvatore, lo salutai, salutai tutti gli altri e mi diressi verso il mio cavallo che era legato poco distante. Lo sciolsi, saltai in groppa e partii al galoppo cercando di raggiungere mio nonno che era diretto verso casa …

Victor
« Ultima modifica: Settembre 08, 2020, 10:34:41 da victor »
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