Tra la curiosità dei passanti, in quella tarda mattinata primaverile, forse dell’anno 30 della nostra era, in una strada di Gerusalemme (che nei secoli successivi avrebbe avuto il nome emblematico di “Via dolorosa”) procedeva un piccolo corteo con un condannato a morte, scortato da un picchetto dell’esercito romano, comandato da un centurione, l’
exactor mortis, che poi avrebbe dovuto verificare l’avvenuta esecuzione del reo, il galileo Gesù di Nazaret. Egli reggeva a fatica sulle spalle il
patibulum, ossia la trave trasversale che sarebbe stata affissa al palo verticale, già conficcato nel terreno del luogo della crocifissione, su una collinetta denominata “Golgota”, nome che nella lingua aramaica significa “cranio”, in latino “Calvarium”, da “Calvariae locus” (= “luogo del cranio”).
Gesù, ferito dalle precedenti torture inflitte con il flagello dai soldati romani, camminava verso l’ultima tappa della sua vita terrena, conclusa con la crocifissione del suo corpo e la conseguente morte.
Sull’asse verticale della croce venne affisso il “titulus”, la placca lignea sulla quale era scritta l’imputazione nella lingua ebraica locale, in greco (lingua internazionale dell’epoca) e in latino: “Gesù Nazareno re dei Giudei”, che diverrà nei secoli successivi l’acronimo “I.N.R.I.” (Jesus Nazarenus Rex Iudeorum).
Diego Velàzquez: “Cristo crocefisso”, olio su tela, 1631, Museo del Prado
Nessuno a Gerusalemme quel pomeriggio, era l’ora nona, cioè le 15.00, avrebbe immaginato che quella scena tragica sarebbe divenuta un vessillo simbolico per secoli.
Quella croce si sarebbe trasformata per la cultura occidentale in un “soggetto planetario”.
I Vangeli non considerano la morte di Cristo sulla croce l’estuario definitivo di un’esistenza votata all’abisso del silenzio sepolcrale.
E’ così che, dopo le ore dell’agonia, la tenebra della morte e il grembo della tomba, sorse il sole dell’alba di Pasqua e la risurrezione di Cristo, che ci permette di inoltrarci verso le frontiere della fede e dello spirito.
Gesù prima di morire disse sette frasi, composte da 41 parole, riportate nella redazione greca dei vangeli. Per la fede dei cristiani sono l’estremo testamento del loro Dio che muore.
1) ai Crocifissori: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,24);
2) alla Madre Maria: “Donna, ecco tuo figlio”. Al discepolo amato Giovanni: “Ecco tua madre” (Gv 19,28);
3) al malfattore pentito, crocifisso vicino a lui: “In verità ti dico: oggi sarai con me nel paradiso” (Lc 23,24);
4) “Elì, Elì, lemà sabachtani?” (= Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?) (Mt 27,46; Mc 15,34; Sal 22,2);
5) “Ho sete!” (Gv 19,28);
6) “Tutto è compiuto” (Gv 19,30);
7) “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” ( Lc 23,46; cfr. Sal. 31,6);
Le sette parole dette da Gesù in croce:
1) Il “perdono” come dono libera dall’ansia di vendetta”.
2) L’affidamento della madre al discepolo Giovanni e questo alla madre.
“Come Mosè incarico Giosuè di prendersi cura del popolo ebraico in sua vece, cosi Gesù incarico Giovanni di prendersi cura di Maria , cioè della Chiesa, popolo di Dio”.
3) Gesù “promette il paradiso”, cioè la vita con lui, al ladrone buono: “Egli si poneva al livello di costoro non per compromettersi nelle loro scelte, ma per salvare chi era escluso o era stato emarginato, per far tornare in vita chi era morto e ritrovare chi era perduto”.
4) Gesù “non muore disperato”, pur nel dolore atroce, fisico, morale e spirituale; E’ il dramma umano della separazione da Dio che sembra indifferente al grido del Figlio.
5) Dalle labbra inaridite di Gesù segue la parola “Ho sete”, la sete che simboleggia la volontà di Cristo di redimere gli uomini; “Se non sentite nel profondo di voi stessi che Gesù ha sete di voi, non potete capire ciò che lui vuol essere per voi e voi per lui”.
6) Con il termine “Tutto è compiuto” sussurrato da Gesù si intende non la rassegnata affermazione di una fine, bensì la consapevolezza del raggiungimento di un fine, di una meta di pienezza il cui effetto perdurerà per sempre.
7) Nell’ultima frase “Nelle tue mani padre consegno il mio spirito” Gesù affida al Padre la sua vita, il proprio principio vitale “Pneuma”, che, nel linguaggio biblico, non è solo il principio.
La croce e il sepolcro non furono l’estuario di quella storia, ma lo fu sua risurrezione, perno portante della teologia cristiana.
Per secoli i cristiani hanno voluto ripercorrere le tappe di quella Via Crucis, un itinerario orante proteso verso il colle della crocifissione ma con lo sguardo rivolto alla meta ultima, la luce pasquale. L’hanno fatto come pellegrini a Gerusalemme, o nelle loro città, nelle loro chiese.
Per secoli scrittori e artisti, grandi o ignoti, hanno cercato di far rivivere davanti agli occhi stupiti e commossi dei fedeli quelle “stazioni”, le soste meditative nel cammino verso il Golgota.
(mia rielaborazione di un articolo di cui non ricordo il titolo del cardinale Gianfranco Ravasi).