Le “parolacce”
A volte le cosiddette “parolacce” suonano come prevedibili sussurri stilnovistici, come intercalari, oppure insulti che possono precedere la violenza.
Le parolacce possono servire, essere utili quando diventano uno sfogo liberatorio. Un’esclamazione volgare detta da chi evita le “volgarità” colpisce e lascia il segno: se ne intuisce l’eccezionalità e la gravità del motivo che l’ha provocata., come quando si guida l’automobile nel traffico.
Al di là di ogni considerazione sociale e morale, le parolacce “gratuite” sono noiose, diventano irritanti quando sono inutili. Se i “frequentatori” di parolacce ne dicono una ogni cinque parole nessuno li nota, perché è un’inflazione della volgarità.
Il turpiloquio dà un illusione di potere, diventa esclamazione punitiva, espressione di sdegno, ma può bloccare il logos, la costruzione del ragionamento, e qualifica chi lo utilizza più di chi ne è bersaglio.
Nell’antica lingua greca per il termine turpiloquio si usava il lemma “aischrologhia” a scopo offensivo o apotropaico.
Aristotele, nella “Poetica”, ammonisce ad evitarne l’uso. Questo filosofo, a ragione, notava che tra l’aischrologhia (il modello greco del termine latino cristiano “turpiloquium”) e l’azione riprovevole il passo è breve.
Di solito le “parolacce automobilistiche” esplodono e ricadono unicamente all’interno dell’abitacolo. I “bersagli” non solo non le odono ma comunque le ignorano. E in tal caso il turpiloquio vale come sfogo. Una funzione tutt’altro che trascurabile.
La dimensione più comune del turpiloquio è sociale. La parolaccia, che è fatta per offendere, pretende un pubblico, qualcuno o qualcosa da “colpire”. Sostituisce lo schiaffo, lo sputo, il calcio. Essendo sostituto verbale di un gesto corporeo, dell’aggressione fisica, la parolaccia tenta di “ferire” ridicolizzando. E’ comunque “liberatoria”, irriverente, si propone di fare “giustizia”. E’ regolamento di conti, è vendicativa. Come “strumento” di vendetta primeggia anche nei versi di antichi epigrammatisti satirici, come Catullo e Giovenale.
La parolaccia verbalizza uno stato affettivo: ira, disprezzo, impazienza, ecc.
Le parolacce oggi dilagano, non le si proibisce più neppure ai bambini. L’uso scriteriato di espressioni volgari è solo un problema etico.
Le parolacce bisogna saperle usare. Quando non si adattano al contesto evidenziano l’incapacità linguistica del parlante, dimostrano di essere l’ultima ratio di un parlante mediocre. Infatti le parole sono come i vestiti. Non sono giuste o sbagliate: bisogna sceglierle secondo le occasioni.