Salve a tutti, ho scritto questo piccolo racconto ispirato ad un evento realmente accaduto.Mi scuso in anticipo per le imperfezioni e per i periodi probabilmente un po' lunghi, accetto critiche di ogni tipo, grazie mille in anticipo.
Nel cielo cerco il tuo sorriso
Credo di parlare a nome di ogni genitore sulla faccia della terra quando dico che i propri figli sono più importanti di qualsiasi altra cosa, la loro felicità, la loro salute, la loro sicurezza si trovano al primo posto, tutto il resto non conta.
Ma quando la vita di tua figlia viene aspramente troncata dalla crudeltà della vita stessa, quando il destino, con le sue ingiustizie, fa in modo che la tua prospettiva nei confronti del mondo intero cambi radicalmente, portandoti via colei che godeva del tuo spropositato amore, talmente intenso da farle dimenticare quanto le sue condizioni di salute fossero labili. Quando tutto ciò accade, allora è una sola la domanda che tormenta prepotentemente la tua mente: e ora?
Era il 3 Aprile 2012, non dimenticherò mai quel giorno, è segnato sul calendario come il più brutto della mia vita. Il giorno in cui persi mia figlia, Emma, per sempre.
Andai in ospedale verso le 9 di mattina, angosciato dal pensiero di dover vedere ancora una volta Em, come amava farsi chiamare, stesa su un letto d'ospedale, dormiente, legata a degli strani macchinari. Decisi di comprare delle mimose in occasione della festa della donna, impaziente di assistere all'espressione sorpresa e compiaciuta di Emma non appena le avrebbe viste.
Tuttavia, dentro di me sapevo che ciò non sarebbe mai avvenuto, che nonostante le mie innumerevoli preghiere, e i miei desideri espressi, la mia bambina non si sarebbe svegliata da quel sonno che non le si addiceva, infatti, mai avrebbe rinunciato a vivere attimo per attimo per rifugiarsi nel mondo dei sogni, no.. lei amava affrontare la realtà a testa alta, con le sue battaglie e le sue meraviglie.
Appena varcata la soglia del maestoso edificio, salutai gran parte dei medici che lavoravano lì, mi conoscevano tutti ormai, e effettivamente, non vi era un giorno in cui io non mi piazzassi in auto per recarmi in quella struttura, dove in una delle tante stanze lei giaceva tra le lenzuola bianche un po’come la sua pelle in quel momento.
E una volta arrivato in quella camera sentii una morsa che non esitò a stringermi il cuore. Ormai ci ero abituato, si respirava un odore di medicinali, di disinfettante, il silenzio era spezzato dall'insopportabile suono che proveniva dai macchinari dove potevo controllare le condizioni vitali di Emma.
Posai le mimose sul suo letto, il mio sguardo vagò per tutta la sua alta e esile figura, dalle gambe sulle quali era poggiato ordinatamente il lenzuolo agli occhi chiusi, serrati, le sue palpebre quasi trasparivano serenità, la sua espressione mi dava un senso di pace, quasi di speranza.
Ma non bastò, e inevitabilmente, anche prima che me ne potessi accorgere, il mio volto era rigato da lacrime salate che scorrevano imperterrite, fino a bagnare il letto.
Iniziai a interrogarmi, a chiedermi il perché di tutto questo, come può una ragazza di soli 15 anni doversi trovare a lottare per vivere? Perché proprio l’ atto di vivere comporta il dover affrontare queste sfide? Sfide che nel caso della mia Em risultavano estremamente ardue, crudeli, improponibili! Purtroppo non mi seppi dare una risposta, ma in fondo so che non l’avrei mai trovata.
Per un minuto interminabile il mio sguardò si posò ancora una volta sul suo viso, era così pacifica, così bella. Non so cosa avrei dato per rivedere quel sorriso, quello che sfoderava ogni volta che, mentre la guardavo studiare mi diceva “Papà, guardo che non vado da nessuna parte, puoi anche smettere di fissarmi!” e rideva, rideva ravvivando l’atmosfera di quella domenica mattina, durante la quale nuvoloni grigi coprivano il sole.
La verità è che se amavo guardarla tanto era proprio perché ero terrorizzato dall’idea di non poterlo più fare, vivevo le mie giornate con l’angoscia di ricevere qualche messaggio da parte di mia moglie, mentre ero a lavoro e cercavo di distrarmi.
Tiravo un lungo sospiro di sollievo ogni volta che tornavo a casa e vedevo i libri e i quaderni sparsi per il tavolo. Ricordo persino come, quando era più piccola, mi sfidava a “Chi ride prima”, un gioco che consisteva nel guardarsi intensamente negli occhi senza ridere, lei puntualmente perdeva dopo cinque secondi scarsi, ma io avrei potuto continuare all’infinito, ero disposto a vedermi nel riflesso di quegli occhi color ambra per tutto il pomeriggio.
Desideravo così tanto avere almeno un briciolo della sua forza, lei sorrideva sempre, nonostante tutto, si sentiva invincibile ogni volta che tornava a casa da un’operazione, un sorriso ancora più smagliante stampato sul suo volto.
Il suo cuore non era solo d’oro. No.
Quel cuore che tanto le dava problemi era fatto di un materiale ben più pregiato, capace di battere di vita anche quando questa minacciava di scivolare tra le dita da un momento all’altro.
Ma era la sua anima quella davvero preziosa. Una di quelle anime che va protetta, amata, trattata con cura, ma al contempo indistruttibile, indomita, pura.
Cercai di non singhiozzare troppo rumorosamente per non farmi sentire dai medici oltre la porta, strinsi la sua mano forte, quasi speranzoso di entrare in contatto con lei attraverso una sorta di telepatia e urlarle di svegliarsi, di sorridermi e di insistere di tornare a casa. Ma nulla di tutto questo accade.
Ciò che si verificò invece, non fece altro che mandarmi in panico totale, i suoni che producevano i macchinari diventarono sempre più veloci, non capivo cosa stesse succedendo e, allarmato, uscii di corsa dalla stanza precipitandomi nel corridoio di quel piano dell'ospedale in attesa di un dottore che venisse a ristabilire la situazione.
La mia mano tornò immediatamente a stringere quella piccola di Emma, il cuore minacciava di uscirmi dal petto e gli occhi mi bruciavano tanto che parevano essere in fiamme, il respiro era affannoso, avevo quasi paura di svenire, ma non potevo permettermelo: mia figlia aveva bisogno di me.
Il tempo parve essersi fermato, il dottore tentò la rianimazione servendosi dei defibrillatori.
Vedere il suo corpo sussultare a ogni scarica elettrica mi faceva contorcere lo stomaco, ero in preda all’ansia, anzi, al terrore.
Lacrime non ne uscivano ma avevo paura, le gambe mi tremavano e i pensieri vorticavano nella ma mente.
Solo dopo qualche minuto ritrovai la voce, gridavo il suo nome, incurante di chi potesse sentirmi.
Dopo inutili tentativi da parte di quel medico, il quale appariva spaventato dalla situazione quasi quanto me, dopo le mie assordanti urla che riecheggiavano tra le pareti di quell'ampia camera, giuro che sentii il peso dell'intera galassia gravarmi sulle spalle e spingermi quanto più in fondo possibile.
Il suono proveniente da quei macchinari che tanto odiavo era cambiato, inconfondibile, era quel suono grazie al quali capii che la vita aveva appena abbandonato Emma.
La mia mano era ancora stretta alla sua, quasi mi parve di sentirla improvvisamente congelata, la carnagione diafana di mia figlia assunse un colorito pallido, e il colore dei capelli, neri come la pece, divenne più spento, anche le mimose parvero appassirsi, sebbene le avessi comprate un'ora prima.
Non dimenticherò mai lo sguardo del giovane dottore difronte a me, era amareggiato, straziato dal senso di colpa, temeva di essere la causa del decesso di Em perché non si era impegnato abbastanza nel tentativo di riportarla a valori stabili, ma io ero troppo occupato a cercare di svegliarmi da quello che speravo ardentemente fosse solo un brutto, terribile incubo, ma che era solo l'orrida realtà.
Quella stessa realtà colma di orrore sembrò lacerarmi dentro, ridurre il mio cuore in tanti piccoli frammenti impossibili da riassemblare, la mia anima macchiata per sempre dall'oscurità in cui mi sentii catapultato dopo aver perso l'unica persona in grado di illuminare le mie giornate col fragoroso suono della sua risata.
Da allora, da quel giorno, non vi è momento in cui la direzione dei miei occhi non sia verso il blu del cielo, dove le nuvole sembrano riprodurre quel sorriso che ogni notte, in sogno, placa il mio dolore.