Inshà’allàh
Alta sulla città, su una colonna, stava la statua del principe felice.
Giuditta non l’aveva mai notata, e sì che di lì ci passava quasi tutte le mattine. Si fermò incuriosita, non aveva letto nulla sui giornali, circa la posa di una statua nei giardini del castello.
In fondo al viale c’era Giacomo, lo spazzino, che da sempre a quell’ora raccoglieva cartacce, bottigliette e lattine.
Giacomo in realtà si chiamava Mahafuz, era d’origine egiziana ed era arrivato con i primi barconi di migranti, nei lontani anni ’90.
Aveva lasciato la giovane moglie in attesa del loro primo figlio, e si era imbarcato per l’Italia, unico miraggio in cui aveva avuto il coraggio di credere. In tasca aveva una laurea in Letteratura Inglese, conquistata con fatica e che mai nella vita gli sarebbe servita. Era alto di statura, con due spalle da lottatore e occhi da buono. Aveva raccolto pomodori per 5 anni senza mai trovare i soldi per tornare a casa. Il nome italiano gli era stato dato dal suo primo caporale, che, notevolmente sordo, non capiva i nomi stranieri e da allora era stato chiamato così. Né la sua bontà, né la sua istruzione gli impedirono di prendere coltellate e di restituirle al momento opportuno.
Era finito in galera ed era uscito solo per andare poco dopo al funerale del figlio che aveva visto solo quell’unica volta, ormai troppo tardi per essergli padre ma consapevole che nulla era andato per il verso giusto nella sua vita.
Ora faceva lo spazzino, in silenzio, pensando a quanti colori hanno le foglie d’autunno, il portamento ogni anno più curvo, le mani stanche che ripetevano ormai sempre gli stessi gesti. Ogni tanto recitava versi di Shakespeare a Giuditta, quell’impiegata che passava attraverso il parco del castello tutte le mattine e lei gli sorrideva sorpresa e commossa.
L’aveva notata per l’ora mattiniera e lo sguardo svagato di chi si aspetta qualche gioia dalla vita, ma senza molta speranza e convinzione. L’aveva vista con i capelli biondo oro, sempre più chiari a causa di quelli bianchi, sino al mattino in cui improvvisamente erano diventati rossi; una piccola bandiera che stava a significare “ehi, ci sono anch’io”.
Giacomo aveva avuto un moto di compassione per quella vecchia ragazza che ancora aspettava il grande amore e a volte aveva raccolto fiori dalla siepe di rose per lei, come un premio di consolazione, piccolo gesto di solidarietà. Giuditta accettava con un sorriso e a volte gli portava le sigarette. Vestiva in modo curioso, indossava sempre qualcosa di verde; un foulard, un paio di guanti, una borsetta o altro. Nessuno sapeva il perché, forse nemmeno lei se lo ricordava più. Da giovane era stata innamorata persa di un ragazzo e con lui faceva grandi passeggiate mano nella mano, nuvole rosa li allacciavano e nulla sembrava che avesse il potere di distrarli dal loro amore.
Attraversavano spesso il parco del castello e un pomeriggio, appoggiati i libri di scuola su un muretto, avevano raccolte foglie di tutte le forme immaginando un loro giardino personale, raccolto tra le pagine di un libro di poesie d’amore.
“ Ci pensi, Giuditta, che quando saremo vecchi, queste foglie saranno ancora qui tra le pagine, certamente non verdi come ora, ma saranno diventate il ricordo di questo giorno? Un ricordo tutto nostro”.
L’idea commosse la ragazza, che non perse mai quel libro.
Perse Francesco.
Venne l’autunno, lui s’innamorò d’Elisa e a lei rimasero le foglie nelle pagine e il verde nel cuore. Ecco perché quel colore l’accompagnava.
Francesco, negli anni aveva spesso pensato a lei, aveva maledetto il giorno in cui aveva sposato Elisa, ragazza bella, quanto bizzosa e sempre insoddisfatta. Lo spingeva ad essere sempre alla ricerca della carriera, cosa che a lui non interessava, non era un arrivista e la cosa lo stressava più che mai. Ricordava le passeggiate con Giuditta, spensierate e serene, mano nella mano e tutte le cose che avevano progettato. Lui sarebbe diventato medico ospedaliero, lei avrebbe insegnato musica o danza.
Francesco era finito a vendere auto usate, lei impiegata in una biblioteca di periferia.
Elisa come carriera, aveva scelto lo shoping.
Spesso Francesco si domandava quale era stata la decisione che aveva cambiato tutto, quale era stato il momento esatto in cui era affondata la sua vita. Ma per questa domanda non esisteva risposta.
Ogni scelta annulla tutte le altre possibilità, diventando di fatto l’unica scelta possibile.
L’aveva letto da qualche parte.
Giuditta chiamò a voce alta Giacomo, per superare il rumore del vento che si era alzato.
“Che c’è signorina?”
“Giacomo, mi sa dire quando è stata messa quella statua? Di chi è?”
“Mah, non saprei, la vedo ora, stamani ho iniziato il mio lavoro dal lato est del parco.
Andiamo a vedere, ci sarà sicuramente una targa.”
C’era e diceva “Il Principe Felice”.
“Boh, ma Felice sarà il suo nome o sarà felice per qualche motivo?”
“A guardarlo bene ha una bella faccia, vero Giacomo? E sì, sembra felice. Ma che strano, sembra che mi guardi diritto negli occhi”.
“ Bè, una statua di cosa dovrebbe dispiacersi? Certo che è felice!”
Da quel giorno Giuditta non perse mai di vista il Principe e si accorse che guardarlo negli occhi la rasserenava; arrivava al parco come se avesse un appuntamento con il suo ragazzo. Col tempo Giacomo capì che tra la statua e la ragazza era nato un sentimento: scuoteva la testa, ma cosa poteva dire lui, che ogni sera baciava la foto della moglie, che mai aveva accettato di seguirlo in Italia? Lo aveva quasi incolpato della morte del figlio, la sua assenza aveva creato una vita che sarebbe stata altrimenti diversa.
Ciò che Giacomo non poteva sapere era che Amina era in città, alla fine aveva accettato il destino e si era messa a cercarlo. Ormai della bella ragazza che era stata, rimaneva poco; era ingrassata, intristita, irascibile.
Ma se Allah decide un destino, Allah deve avere i suoi buoni motivi.
Inshà’allàh.
In famiglia volevano assolutamente che lei divorziasse per sposare il cugino di Mahafuz, che lei detestava. Akbir era uno zotico, già due mogli lo avevano lasciato e i figli secondo l’usanza erano rimasti con lui. Perché dunque Amina avrebbe dovuto fare la serva ad Akbir e allevare i suoi figli, se Allah non aveva voluto lasciarle il suo?
Fu così che scelse la fuga e non sapendo dove andare, decise che la meta sarebbe stata il marito; in fondo sapeva benissimo che pure lui era solo una pedina del volere del Profeta.
Vendette tutti i gioielli della dote al banco dei pegni del paese vicino, affinché nessuno venisse a saperlo e con l’aiuto della levatrice, donna discreta per abitudine e denaro, organizzò di nascosto il viaggio in Italia.
Amina era una donna cocciuta, se prendeva una decisione, la portava avanti senza ripensamenti: sapeva solo che il marito lavorava nel parco di quella città e lì si recò giorno dopo giorno, sperando di rintracciarlo.
Aveva trovato lavoro come badante tramite gente della comunità egiziana, e aveva due ore di tempo al giorno di libertà, che impiegava ostinatamente per frequentare il parco.
Durante le sue perlustrazioni aveva imparato a conoscere le altre persone che alla stessa ora attraversavano quei giardini. In particolare le faceva tenerezza quella donna non più giovane con i capelli rossi che camminava con aria trasognata, guardandosi in giro come se aspettasse qualcuno.
Da qualche giorno era apparsa nel parco anche una statua abbastanza strana per i suoi gusti: sembrava che rappresentasse una persona importante, abbigliata in modo pomposo, forse era un visir.
Quel giorno vide la donna dai capelli rossi, chinarsi ai piedi della statua, deporre un libro, e poi andarsene.
Curiosa come tutte le donne si precipitò a guardare di cosa si trattasse e non poca fu la sorpresa quando aprendo il libro lo trovò pieno di foglie secche.
Stava rivoltandoselo tra le mani, quando una voce sgomenta e alterata le urlò alle spalle.
“ Questo è mio, dove l’ha preso?”
Spaventata si mise a piagnucolare e a raccontare in italiano stentato cosa era avvenuto. L’uomo dai capelli grigi e occhiali spessi parlava parlava parlava ma lei non capiva nulla. Vedeva solo che era agitato e alla fine tutto quel trambusto fece accorrere gente.
Amina si spaventò ancora di più, già si vedeva buttata in qualche prigione, senza che nessuno sapesse dove fosse finita. Magari sarebbe stata torturata.
L’anziano spazzino si avvicinò cercando di fare da interprete tra quella donna grassa vestita di scuro con il velo islamico e l’uomo che aveva le lacrime agli occhi ed era tutto agitato.
In breve riuscì a calmare le acque, la gente si disperse, il vecchio si tenne il libro e lui, consapevole dei problemi di quella donna spaesata e conterranea, ebbe un moto gentile e le offrì un mazzolino di verbene blu del parco. Improvvisamente gli parve di essere arrivato a casa e le sorrise. I loro sguardi si incontrarono e in silenzio si riconobbero.
Il mattino successivo il primo sole vide Francesco rigido come un soldatino di piombo ai piedi del Principe Felice, reggendo in una mano il libro con le foglie e nell’altra una rosa rossa.
Avrebbe aspettato tutto il giorno, visto cambiare la luce del giorno e accendersi i lampioni.
Giuditta non passò mai più dal parco; aveva smesso di aspettare l’amore.
..o se preferite..
Avrebbe aspettato tutto il giorno, visto cambiare la luce del giorno e accendersi i lampioni
Finalmente Giuditta uscì dalle ombre dei platani e andò lieve verso di lui, con un sorriso tranquillo che le illuminava il volto.
“Hai fatto tardi, Francesco, è tanto che ti aspetto”;le loro mani si sfiorarono mentre la luce dei lampioni li avvolgeva come in un mantello.
Più tardi, molto più tardi, il Principe Felice sorrise al vento.