Autore Topic: Filosofia politica: tra merito e meritocrazia  (Letto 11571 volte)

Doxa

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Filosofia politica: tra merito e meritocrazia
« il: Marzo 14, 2016, 10:21:26 »
Filosofia politica: tra merito e meritocrazia



Il sostantivo femminile “meritocrazia” fu creato dal sociologo inglese Michael Young per il suo saggio “The Rise of Meritocracy”, pubblicato nel 1958.

Young mise insieme una parola  di origine latina, “merito”, con un’altra di origine greca “crazia” (-kratía = potere), usata come secondo elemento (suffissoide)  di parole composte con il significato di “potere”, “dominio” esempi: democrazia, burocrazia, partitocrazia. 
Il sostantivo femminile “meritocrazia” (= potere del merito) allude ad ogni forma di promozione sociale esclusivamente per merito e per capacità individuali.

Il concetto di merito è antico ed è collegato all’etica, al bene compiuto con le proprie opere o le proprie qualità.

Il merito deriva dal comportamento “meritorio” mentre la meritocrazia è il sistema che fonda ogni forma di promozione sociale sul merito inteso come insieme di talento e impegno individuale.

Il filosofo Platone dopo aver assistito  ad Atene al logoramento delle forme di governo  basate sulla democrazia e sull’oligarchia, verso il 390 teorizzò la necessità che a governare siano i filosofi (il governo dei “migliori”).   Governare, precisa Platone, significa comprendere il bene collettivo e tradurlo in leggi e atti politici opportuni. Né la democrazia, né l’oligarchia né la tirannide possono essere considerate come modello politico in grado di garantire la giustizia.

Platone nel “Politico” dice che nella struttura sociale esistono conflittualità, interessi contrastanti, ambizioni, inclinazioni, debolezze, e il governante deve trovare il modo di applicare l’eguaglianza nella società frenando le ambizioni smodate per evitare le prepotenze e le violazioni dei diritti.

Nell'intento di istituire una società giusta, ordinata e orientata al bene, Platone nella “Repubblica”  descrive il suo modello ideale di città-Stato, organizzata in tre classi sociali e governata da un gruppo di sovrani filosofi. Sarà  unito e giusto lo Stato nel quale ogni individuo attenda al cómpito che gli è deputato e abbia quel che gli spetta, in proporzione.


« Ultima modifica: Marzo 16, 2016, 13:56:59 da dottorstranamore »

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Re:Filosofia politica: tra merito e meritocrazia
« Risposta #1 il: Marzo 16, 2016, 10:04:04 »
Il sostantivo “merito” ha una connotazione  positiva (a differenza del verbo “meritare”, il cui oggetto può anche essere di segno negativo) e riguarda una dimensione fondamentalmente individuale e non collettiva.

Se il “merito”  lo si considera come un postulato, come principio che si ammette come verità non dimostrabile per spiegare determinati fatti sociali, allora non è difficile mostrare numerosi meriti dipesi da fattori ereditari: finanziario, nobiliare, genetico. E’ l'incongruenza delle società di mercato che inneggiano al merito e all’eccellenza ma praticano il principio di trasmissione ereditaria delle cariche.

Il merito ha una funzione sociale,  scaturisce dalla capacità individuale di eccellere in qualcosa, di compiere un certo atto in maniera ottimale.  Invece il livellamento formativo (scolastico, lavorativo), l’imporre uniformità a tutti impone  anche la mediocrità a tutti. Viceversa, proponendo modelli da emulare, si promuove l’eccellenza e si coltivano le risorse di ciascuno.  Significa attivare  la leale competizione.

Il livellamento verso il basso costituisce un modo “buonista”, cattocomunista,  di educare che spegne l’incentivo a migliorarsi non solo nei più dotati, il cui merito viene ignorato o addirittura sabotato, ma anche nei più scadenti, che si sentono legittimati a non fare nulla perché non serve “darsi da fare”: si può vivere di “raccomandazioni” e del sostegno economico della famiglia.

La mancanza di fiducia degli italiani nella propria società scoraggia tanti giovani ad impegnarsi nella formazione scolastica, lavorativa, che possa permettere loro di salire sulla cosiddetta “scala sociale”; si affidano ai rapporti personali e non al merito per trovare un'occupazione. Infatti i   giovani che riescono a trovare un lavoro, spesso  lo ottengono tramite amicizie, conoscenze, parentele. Così i più intraprendenti cercano lavoro all’estero.

La famiglia tende inevitabilmente a favorire la logica dell'appartenenza rispetto a quella del merito e scade nel cosiddetto “familismo amorale”, descritto dal sociologo Edward C. Banfield nel suo libro pubblicato in Italia nel 1976: “Le basi morali di una società arretrata”. In tale società gli individui tentano di massimizzare i vantaggi materiali ed immediati del proprio nucleo familiare, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. La famiglia privilegia il familismo, l'appartenenza rispetto al merito.
« Ultima modifica: Marzo 16, 2016, 13:57:45 da dottorstranamore »

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Re:Filosofia politica: tra merito e meritocrazia
« Risposta #2 il: Marzo 16, 2016, 10:06:09 »
Ma il solo “merito” è un criterio giusto per decidere con equità l’attribuzione di posizioni di prestigio e ben pagate, a carriere di responsabilità lautamente retribuite e socialmente riconosciute ?

E’ difficile la convivenza del merito con l’uguaglianza e la giustizia. Solo la condivisione del concetto “giustizia sociale” rende possibile parlare di merito in modo coerente. Se il merito non è un valore della società, la ricerca della “eguaglianza di opportunità” non è un obiettivo per il quale valga la pena di battersi.

Ogni concezione plausibile del merito presuppone una struttura istituzionale che la legittimi, perciò sono le istituzioni  sociali, economiche, politiche, che determinano che cosa è merito.

Si parla del merito anche  in Italia, bloccata dalla perversa tradizione clientelare che premia chi ha amici potenti non chi ha capacità, con conseguente sfiducia  dei giovani che il merito possa cambiare la loro vita e che vivere vite ineguali non dipenda da loro.
Merito e lavoro appaiono come una coppia inscindibile di valori positivi: il primo come condizione per il secondo. Il merito come segno della valorizzazione degli individui contro l’egualitarismo delle fasce salariali. Il lavoro come mezzo per la soddisfazione dei bisogni e  non come condizione sociale che definisce diritti,  doveri e appartenenze ideologiche.

L'assenza di fiducia scoraggia i giovani a credere nel merito come leva essenziale per salire sull'ascensore sociale, iniziando dalla scuola, proseguendo nell'università e continuando poi nel mondo del lavoro.

Il metodo riconosciuto  come valido per inserirsi e avanzare nel mondo del lavoro è  il cosiddetto “nepotismo”, o di “conoscere qualcuno”. Contano moltissimo le “raccomandazioni” personali, informali e dietro le quinte, fatte per esempio da un politico che magari non conosce nemmeno il raccomandato. Sono raccomandazioni diverse da quelle che si fanno negli Stati Uniti d’America, dove chi raccomanda lo può fare perché conosce bene la persona.
Da qui deriva la profonda convinzione che il merito nella società italiana non venga di solito misurato dal valore di una persona ma dall'importanza delle sue conoscenze, perché il nepotismo o l'appartenenza sono diventati un'arma  efficace.

Un'altra espressione di antimerito è il successo dell'”arrivista sociale», che sta vicino a una persona “importante” sperando che un po' di privilegi arrivino anche a lui. In Italia i casi sono numerosi, e i danni irreparabili.

Il filosofo statunitense John Bordley Rawls (1921 – 2002) non credeva che dal merito potesse scaturire una politica di giustizia sociale. Perchè è difficile spiegare con precisione che cosa sia vero merito,  in quanto é impossibile stabilire con certezza il dosaggio tra capacitá personali e condizioni sociali. Infatti, qualche volta sembra che il merito sia una qualitá che la persona riconosciuta meritevole possieda in modo naturale,  per innato talento, che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere.

Sul merito ci si può certo basare, purché sia chiaro che l'introduzione di criteri di merito risponde a esigenze di efficienza e produttività, non a criteri di giustizia e eguaglianza.

Per Rawls è l’eguaglianza di condizione, di trattamento e di opportunità  il principio che deve governare la giustizia sociale;  il merito é la conseguenza di un ordine sociale giusto. il merito deve sprigionare da una societá nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un’eguale possibilitá di formarsi capacitá e poter partecipare alla gara della vita.

Ma che merito ha una persona se è naturalmente dotata, se è bella, intelligente, atletica e con un alto quoziente intellettivo ?  A che cosa è da attribuire questa dotazione se non al suo destino ? Il destino, la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto determina il ruolo delle nostre vite.

Ciò che una persona dotata riceve, per esempio l'accesso ad una migliore istruzione, non segue da leggi naturali ma soltanto e unicamente da regole sociali.

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Re:Filosofia politica: tra merito e meritocrazia
« Risposta #3 il: Marzo 17, 2016, 06:52:11 »


Meritocrazia: concezione che fonda ogni forma di promozione sociale esclusivamente sul merito e sulle capacità individuali. La posizione sociale di un individuo viene determinata dal suo quoziente intellettivo e dalla sua attitudine al lavoro.

Le cariche pubbliche, amministrative, e qualsiasi ruolo o professione che richieda responsabilità nei confronti di altri, è affidata secondo criteri di merito, e non di appartenenza a lobbies, o altri tipi di conoscenze familiari (nepotismo e in senso allargato clientelismo) o di casta economica (oligarchia).

Molti credono che un sistema meritocratico sia un buon sistema sociale,  sia perché più giusto sia perché tutela dalle discriminazioni fondate su criteri arbitrari quali il sesso, la razza e l’origine sociale. La meritocrazia dà importanza alle capacità, alle competenze, indipendentemente dalla provenienza, l’etnia, l’ideologia politica dell’individuo, il suo essere donna o uomo.

Invece  i detrattori dicono che la meritocrazia produce la discriminazione, la perpetuazione del potere, dello status sociale e dei privilegi. Essi sostengono che caratteristiche come intelligenza e sforzo non sono misurabili con accuratezza. Perciò, dal loro punto di vista, qualsiasi attuazione della meritocrazia comporta necessariamente un alto grado di arbitrarietà ed è, di conseguenza, imperfetta. Inoltre, dicono,  nell’ambito lavorativo la meritocrazia privilegia criteri che prescindono dalle conoscenze e dalle abilità, valorizza la fedeltà all’azienda, la lealtà nei confronti del superiore, l’obbedienza e l'anzianità nel luogo di lavoro.

Negli U.S.A, patria della meritocrazia, le “recommendations”, le raccomandazioni, aiutano l’occupazione. Però, come ho già scritto nel precedente post, sono “raccomandazioni” molto diverse dalle nostre. Chi segnala qualcuno particolarmente bravo e adatto per un posto di lavoro lo fa con cautela, perché mette in gioco la propria stessa reputazione e risponde moralmente della performance della persona segnalata; da noi, invece, si raccomandano con leggerezza persone che non si conoscono (dal punto di vista delle capacità professionali) per posti di lavoro che non si conoscono.

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Re:Filosofia politica: tra merito e meritocrazia
« Risposta #4 il: Marzo 18, 2016, 09:13:12 »
Il filosofo e storico dell’educazione Giuseppe Tognon nel suo recente libro titolato “La democrazia del merito”, dice che la “meritocrazia” può essere definita come quella concezione politica secondo cui è giusto che “il potere, il denaro e il prestigio siano riconosciuti e ottenuti esclusivamente, o almeno prevalentemente, per le doti e l’impegno degli individui”. Ma così concepita la meritocrazia non può realizzare la giustizia sociale. Una minoranza, anche se composta dai “migliori”, non può  attribuire a sé ciò che la democrazia reclama per tutti: libertà, dignità, l’istruzione, il lavoro, l’accesso alle cariche. In troppi casi la meritocrazia dei ricchi preferisce non vedere che cosa potrebbe essere il merito dei molti.

Roger Abravanel nel suo libro titolato “Meritocrazia: Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro paese più ricco e più giusto” , dice che la meritocrazia si basa su due concetti/valori fondamentali:

1) piena responsabilità individuale di cogliere oneri e onori delle proprie azioni;

2) pari opportunità per tutti nel confronto di tale sfida.

Questi due concetti, però, sono di difficile coesistenza.
 
Le destre liberali, quando vogliono praticare la meritocrazia, pongono l'accento sul primo dei due concetti, dando la priorità alla massima responsabilizzazione degli individui sulle proprie capacità di vincere o perdere. La disuguaglianza, anche se non desiderata, è accettata come 'inevitabile conseguenza della libertà d'iniziativa e d'impresa che deve essere lasciata ai singoli.

Invece le sinistre nel mondo anglosassone quando vogliono praticare la meritocrazia, pongono l'accento sul secondo dei due concetti, quello della pari opportunità di tutti i cittadini e sulla responsabilità collettiva di eliminare tutti gli eventuali vincoli a tale eguaglianza. Il libero mercato è accettato come strumento di generazione di opportunità. Un certo grado di disuguaglianza è parimenti accettato, come inevitabile conseguenza del mercato, ma nella misura in cui tale disuguaglianza è funzionale a generare gli incentivi negativi e positivi necessari al funzionamento del mercato e alla generazione di opportunità e di mobilità sociale. La mobilità sociale, e non la ridistribuzione del reddito è lo strumento per ristabilire equità e giustizia sociale.

La meritocrazia si nutre di una prospettiva individualista: chi arriva ad occupare posizioni di potere lo fa per indistinto “merito” personale:  un misto di fortuna, talento innato e ambiente sociale favorevole, solo in parte favorito dagli sforzi individuali.
Ciò su cui invece la società dovrebbe concentrarsi per perseguire il bene comune sono le pari opportunità: garantire a ciascuno la possibilità di esprimersi e acquisire competenze da mettere al servizio della comunità. È necessario investire nel diritto allo studio, nel collegamento tra istruzione e mondo del lavoro.

La leva  su cui puntano le sinistre moderne è l’educazione, l’istruzione come arma strategica per ristabilire le opportunità e fornire a chiunque, indipendentemente dal ceto sociale di origine, la possibilità di sfruttare le opportunità dell'economia postindustriale.

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Re:Filosofia politica: tra merito e meritocrazia
« Risposta #5 il: Marzo 20, 2016, 08:10:59 »
La meritocrazia è privilegio di ricchi e potenti ?

La cultura che premia il merito può essere accusata di “elitismo” ?  Questo sostantivo deriva dal francese “élite”, participio passato di “élire”,  e discende dal verbo latino “eligere”, che significa “scegliere” o “eleggere”… le persone considerate più colte, più competenti ed autorevoli in un determinato gruppo sociale, e dotate quindi di maggiore prestigio.

La teoria delle élites spiega che in ogni società e in ogni epoca, poche persone  riescono ad avere ricchezza, potere, onori e s'impongono alla quasi totalità della popolazione. Questo fenomeno costituisce uno degli argomenti più antichi e maggiormente discussi da  filosofi, storici, economisti, sociologi e politologi, a cominciare da Platone ed Aristotele, che cercarono d'individuare le modalità e le cause delle diseguaglianze sociali e della distribuzione del potere: pochi individui governano, comandano. Secondo l'elitismo la massa è incapace di organizzarsi, invece l’élite ne è capace, si organizza,  ottiene e mantiene il suo potere. Quindi la meritocrazia si contrappone alla democrazia.

Non c’è nulla di ingiusto o discriminatorio nel premiare i migliori con i posti di responsabilità....purché siano onesti. 

Aristotele nella “Politica” sostiene che la “meritocrazia” alimenta un regime tendenzialmente oligarchico, perché conferisce autorità a chi già gode di un vantaggio.

Il merito morale crea le basi per il merito razionale, espresso dall’equazione del citato  sociologo inglese  Michael Young: I + E = M.  Questa equazione regge tutta l'ideologia della meritocrazia: guida le regole, i comportamenti e le misure del merito nelle società meritocratiche.

La I  indica l’intelligenza, le qualità intrinseche di un individuo: le sue capacità cognitive, l'abilità nel capire, interpretare, analizzare e utilizzare in modo produttivo le informazioni, la capacità di intelligenza emotiva e di leadership, la forza di carattere.

La E (= effort,  lo sforzo)  è collegata ai comportamenti di una persona, soprattutto al suo impegno.

La M indica il merito, unica leva del successo nella società meritocratica.

L’ideologia meritocratica enfatizza la centralità  dell’individuo, i suoi  cosiddetti talenti, riconosciuti, apprezzati, valorizzati dalla società in cui vive.  Infatti per comprendere il significato del merito bisogna considerare il contesto sociale, se consente o meno  agli individui meritevoli di emergere.

Le istituzioni dovrebbero avere il compito di portare ciascun individuo al nastro di partenza prima che cominci la gara e far partire  tutti dallo stesso punto, con programmi d’istruzione uguali per tutti. Ma basta l’istruzione ? Sono importanti la famiglia di origine (se è povera, ricca),  le relazioni sociali, i ruoli. Il sistema sociale è un sistema di ruoli: nell'ambito del proprio ruolo ogni individuo entra in relazione con gli altri e contribuisce alla riproduzione del sistema nel suo complesso.

Il criterio meritocratico come sistema di selezione è invocato oggi da tutte le parti politiche, ma confligge  con i criteri di eguaglianza e giustizia, mentre va bene coi criteri di funzionalità e efficienza.

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Re:Filosofia politica: tra merito e meritocrazia
« Risposta #6 il: Marzo 23, 2016, 06:21:12 »
La mobilità sociale riduce la disuguaglianza.
Le società anglosassoni, in particolare gli Stati Uniti d’America,  sono meno disuguali perché permettono l'elevata mobilità sociale. Invece in Italia la  disuguaglianza è tendenzialmente  statica, a bassa mobilità sociale. Non consentendo ai tutti i migliori di salire sull’ascensore sociale qualunque sia il loro livello di partenza, di fatto incrementa la disuguaglianza.

Ma cos’ è la mobilità sociale ? Allude al passaggio, se possibile, di un individuo o di un gruppo da uno status sociale ad un altro, da una classe sociale, uno strato sociale, un ceto sociale ad un altro.   La possibilità dipende  dal livello di flessibilità nella stratificazione di una società, dalla difficoltà o facilità con cui è possibile passare da uno strato sociale ad un altro più o meno elevato.

La mobilità sociale ha avuto inizio dalla rivoluzione industriale con lo spostamento di grandi masse di persone dalle campagne verso i centri urbani (urbanizzazione), quindi con la nascita dell'industrializzazione.

Le società a bassa mobilità sociale sono nella maggior parte dei casi quelle a economia agricola, dove l'istruzione non ha un ruolo fondamentale ed è determinante lo status sociale "ereditato" dalla famiglia d'origine.

L'importanza dell'istruzione  come strumento di elevazione sociale del soggetto e necessaria alla  specializzazione che nel lavoro è richiesta e che proprio con l'istruzione può essere raggiunta.

I sociologi distinguono fra mobilità orizzontale e verticale,  ascendente e discendente, intergenerazionale e intragenerazionale, di breve e di lungo raggio, assoluta e relativa.

La mobilità sociale orizzontale indica il passaggio di un individuo da una posizione sociale a un’altra nell’ambito dello stesso livello.

La mobilità sociale verticale indica il passaggio di un individuo da una posizione a un’altra più alta (mobilità verticale ascendente) o più bassa (mobilità verticale discendente) nel sistema di stratificazione sociale.

 La mobilità intragenerazionale: riguarda il cambiamento di posizione socioeconomica di un individuo durante il corso della sua vita. La mobilità intergenerazionale viene  misurata confrontando lo status sociale dell’individuo con quello dei suoi genitori.   

La mobilità di breve raggio indica che il cambiamento è avvenuto fra strati o classi sociali contigue.

La mobilità di lungo raggio indica che il cambiamento è avvenuto fra strati o classi molto lontani.

La mobilità assoluta indica il numero complessivo di persone che si spostano da una classe sociale all’altra.

La mobilità relativa indica il grado di eguaglianza delle possibilità di mobilità dei membri delle varie classi sociali.

La mobilità individuale si riferisce agli spostamenti verso l’alto o il basso di un singolo soggetto.

La mobilità collettiva si riferisce agli spostamenti verso l’alto o il basso di un intero gruppo (una classe sociale, uno strato sociale, ecc.).

La filosofa politica statunitense Elizabeth S. Anderson sostiene che coloro che si battono contro le diseguaglianze assegnate dal destino e presumono che la società debba compensare in qualche modo gli svantaggiati sono rosi dall'invidia sociale: “Perché lui si e io no ?” È l’interrogativo che fa nascere l’invidia. “Anche se ho già un lavoro che mi soddisfa, ho tutto  il diritto di guardarmi intorno e di chiedere motivo dei privilegi altrui, senza che questo sentimento sia da considerare né invidia né soppressione di talento”.

Comunque nascere in una famiglia economicamente benestante, istruita, che ha relazioni sociali ad alto livello, capace di dare sicurezza ed autostima ai figli,  che li fa studiare e li sprona alla competitività e all’emergere, aiuta i “pargoli” ad entrare nel mondo del lavoro non dalla “porta di servizio”  ma dal portone principale, con possibilità di rapidi carriere. Ovviamente la famiglia deve anche educare i figli ad accettare l’avverso destino.
« Ultima modifica: Marzo 23, 2016, 06:35:14 da dottorstranamore »

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Re:Filosofia politica: tra merito e meritocrazia
« Risposta #7 il: Marzo 27, 2016, 08:41:22 »
Luca Cordero di Montezemolo:  “…il merito è segno di civiltà, oltre che di equità. Premiare chi merita significa riconoscere le persone per quello che valgono, per il loro impegno e non per la loro estrazione sociale. La nostra rimane invece una società incentrata sulle caste, dove la mobilità sociale è bassissima, dove i figli perpetuano il lavoro dei padri, dove c'è poco posto per i giovani nelle posizioni di vertice della politica e delle professioni”. (suo intervento  in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico 2007/2008 all’Università LUISS)

Il merito postula l’uguaglianza nelle opportunità, non facile da raggiungere, ma è il metodo più efficace anche  per non far prevalere le relazioni sociali, le conoscenze “importanti” come trampolino di lancio.
 
L’uguaglianza si favorisce ponendo idealmente tutti sulla stessa linea di partenza. Non ci può essere merito se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le diseguaglianze. Nella “gara” deve  vincere chi dimostra determinate capacità, intelligenza, impegno.

L’egualitarismo è necessario alla democrazia perché nessuno prevalga su altri, ma l’egualitarismo è stato ampliato fino a considerare gli individui uguali tra loro, ponendo in ombra il merito, che invece è determinante come “selezionatore”, insieme alla meritocrazia come sistema di selezione e legittimazione della democrazia.

L’egualitarismo, contrabbandato come fase suprema della democrazia, ne diviene la negazione nella misura in cui nega al merito individuale il suo proprio valore.

Il filosofo e storico dell’educazione Giuseppe Tognon nel suo libro titolato “La democrazia del merito” afferma che questa trasforma in vantaggio collettivo l’individuale merito, che va valutato nella concezione della giustizia sociale.

“Democrazia” è una parola composta di origine greca, formata da “démos” (= popolo) e dal suffissoide “cràtos” (= potere), significa “governo del popolo”.

Il politico e militare Pericle (495 a.C. circa – 429 a.C.) teorizzò e realizzò la democrazia in Atene: l’assemblea (ecclesia) di tutti i cittadini aveva il diritto di decidere il governo della città-Stato. Le funzioni svolte dai vari apparati governativi, amministrativi, giudiziari e militari erano prerogative dirette dell'ecclesia, che sceglieva i cittadini destinati alle diverse mansioni, riservandosi il diritto di controllo permanente sulle loro attività e di revoca dalle loro cariche in qualsiasi momento.

Pericle nel suo “discorso agli Ateniesi” nel 431 a.C. fra l’altro disse: “Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. […] Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza.[…] Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento”.

Una società democratica deve tenere conto delle necessità dei più svantaggiati, però nella competizione sociale ci debbono essere dei vincitori: i meritevoli, a prescindere dal censo.

La meritocrazia afferma il valore dell’intelligenza e dell’impegno individuale come criterio di selezione, e va bene, ma la meritocrazia deve essere compatibile con la democrazia altrimenti può condurre all’oligarchia. 

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Re:Filosofia politica: tra merito e meritocrazia
« Risposta #8 il: Marzo 28, 2016, 00:27:33 »
La “mobilità sociale” allude alla transizione dell’individuo da uno status sociale ad un altro.

Il sostantivo “status” deriva dalla lingua latina, dal verbo stare,  e significa "posizione", "situazione": indica la “posizione sociale”  di un soggetto  in un determinato contesto. 

La collocazione di un individuo nella società dipende dal suo “status”.

Nel diritto romano il termine status era usato per indicare la condizione giuridica di una persona,  che poteva usufruire di un determinato diritto civile, politico o patrimoniale. Esistevano tre tipi di status:

lo status libertatis, distingueva la persona libera dallo schiavo; era la condizione di chi nasceva libero o lo diventava (liberto) per concessione del padrone;

lo status civitatis, che distingueva il cittadino romano (civis romanus) da chi non aveva la cittadinanza romana;
 
lo status familiae, ossia la condizione di appartenente ad una famiglia. 
 
Lo status sociale può essere ascritto, cioè posseduto per nascita,  perciò indipendente dalla volontà o dalle azioni dell’individuo (età, famiglia d’origine, gruppo etnico, il sesso, ecc.), oppure acquisito, cioè ottenuto per merito, competenza, impegno, capacità personale.

I  fattori ascrittivi, indipendenti dalla volontà dell’individuo, a volte possono ostacolare l’ascesa sociale, il cambiamento di status, perché ci sono  gruppi sociali che hanno analoghi interessi da tutelare e possono coalizzarsi per difendere le posizioni di privilegio già acquisite, mettendo in atto pratiche di esclusione.

In fatto di privilegi il fortunato visconte francese Alexis de Tocqueville (1805 – 1859) durante la sua permanenza negli Stati Uniti d’America poté osservare e riflettere sullo straordinario livellamento sociale, sull'assenza di privilegi di nascita e di ceti chiusi,  la possibilità per tutti di partire dallo stesso livello nella competizione sociale. Questa realtà lo indusse a scrivere il saggio “La democrazia in America”, pubblicata in due parti, nel 1835 e nel 1840 dopo il suo ritorno in Francia.

Per il filosofo, sociologo e giurista Tocqueville il fondamento delle democrazie moderne è l’eguaglianza di opportunità garantita a tutti i cittadini; lo status diventa allora qualcosa di acquisito, che si ottiene in base alle proprie capacità. Il diritto all’istruzione, per esempio, dà a tutti in via di principio la possibilità di conseguire una posizione sociale, uno status corrispondente ai propri meriti. Questo, ovviamente, è un modello ideale da cui la realtà può discostarsi notevolmente.

Come “controcanto” a Tocqueville ci fu il filosofo britannico Herbert Spencer (1820 – 1903), teorico del darwinismo sociale ed interessato ad elaborare  anche una teoria generale del progresso umano, sociale e naturale. Spencer scrisse:  “L'intero sforzo della natura è di sbarazzarsi dei falliti della vita, ripulendo il mondo della loro presenza e facendo spazio ai migliori”. 
Il darwinismo sociale di Herbert Spencer trovò  molti seguaci in America. La ricca borghesia trovò la giustificazione biologica nella "selezione del più adatto". La scienza, al servizio della classe dominante, giustifica lo sfruttamento della classe operaia e i bassi salari.
I poveri sono poveri, perché hanno perso la "battaglia per la vita". Devono contribuire alla vittoria dei più forti attraverso il loro sacrificio.  “Così a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Mt 13,12). Ma Gesù disse questa frase  riferendosi ai suoi insegnamenti che i  suoi fedeli  debbono apprendere e praticare.
 
Una figura inquietante  di tale ideologia fu il predicatore evangelico e politico statunitense Henry Ward Beecher (1813 - 1887),  che portò le teorie di Spencer all’interno della sua chiesa, avallandole attraverso il consenso divino: "Dio ha inteso che i grandi siano grandi e i piccoli siano piccoli".

Anche il  sociologo ed economista William Graham Summer (1840 – 1910), presbitero della Chiesa episcopale, fu un   sostenitore delle teorie social darwiniste: si opponeva a qualsiasi intervento dello Stato in aiuto dei più poveri, soprattutto se questo aiuto era realizzato con il denaro dei benestanti. La sua idea di borghese coincideva con il lavoratore integerrimo, parsimonioso ed attaccato alla famiglia. "colui che, comportandosi scrupolosamente, raccoglie così il giusto premio non ha nessuno obbligo di aiutare colui che è razzialmente o mentalmente inferiore, meno adatto, e che è la società a interdire ed emarginare". Queste riflessioni di W. G. Summers  fecero da sfondo ideologico alla formazione dei grandi monopoli e dei trust che all’inizio del novecento coinvolsero  i maggiore settori produttivi. La ricchezza sproporzionata che venne realizzata in pochi decenni della borghesia, indusse anche ad una smisurata ostentazione del lusso.