“Coraggio, guardiamo”, è l’ultimo verso della poesia titolata “Spiragli”, scritta da Vincenzo Cardarelli (1887 – 1959):
Che cosa mi colpisce oramai?
Un velo d’ombra di mare
sui monti lontani,
un lembo di nuvola tutelare.
Ma basta levare la testa.
Le cose non stanno che a ricordare.
Piano piano i minuti vissuti,
fedelmente li ritroveremo.
Coraggio, guardiamo.
Ma “coraggio, guardiamo” è anche il titolo di un libro dello scrittore napoletano Giuseppe Marotta (1902 – 1963).
In una pagina del predetto testo, pubblicato nel 1953, Marotta ironicamente afferma: “Ah, come si diventa preziosi, in Italia, dopo la morte ! Non vedo l’ora di estinguermi, per essere commemorato, descritto, lodato, eccetera: per sapere finalmente chi ero”.
L’encomio funebre o lode funebre (=laudatio funebris) è un genere letterario che spesso amplifica i meriti acquisiti in vita dal celebrato, fino all’impudente falsificazione.
“De mortuis nil nisi bene” (= Dei morti non si deve dire altro che bene)
Il discorso celebrativo, l’epinicio, alimentato dall’enfasi, esalta, glorifica, incensa. Se l’Ego di ogni individuo potesse ascoltare, riceverebbe la “carezza” vivificante dalla (pur ora deprecata) futura celebrazione funebre.
La lode ricevuta, anche se ipocrita, genera orgoglio in chi la riceve, suscita la vanità, un difetto che ignora l’autoironia e cade nel ridicolo.
Il vanitoso è “come un gallo convinto che il sole sorge per ascoltarlo cantare”, scrisse George Eliot, pseudonimo di Mary Anne (Marion) Evans (1819 – 1880), nel suo romanzo “Adam Bede”, pubblicato nel 1859, nell’epoca vittoriana, di cui fu una delle più importanti scrittrici.