Dal Nuovo Testamento si apprende che Gesù predicava tramite parabole e similitudini, come usavano i rabbini del suo tempo.
Più volte Gesù parlò in modo allusivo ed enigmatico, lasciando all’ascoltatore la ricerca del significato delle sue parole. Egli esortava dicendo: “Chi ha orecchie per intendere, intenda”, cioè chi è in grado di capire, cerchi di capire”.
Egli considerava adeguato il suo modo di esprimersi per farsi comprendere dai suoi ascoltatori senza o con scarsa istruzione scolastica. Infatti la parabola è un racconto didascalico che serve per far capire in modo semplice concetti complessi.
Il sostantivo “parabola” deriva dal greco “parabolé” e significa comparazione, confronto, paragone.
Nei suoi insegnamenti Gesù diceva agli interlocutori : “ascoltate", ad imitazione al credo di Israele, che inizia con le parole "Ascolta Israele". Gesù elimina Israele e dice agli interlocutori: “ascoltate”.
Alcune delle parabole descritte nei tre vangeli sinottici fanno pensare ad un Cristo esperto rurale: per esempio, parla del seminatore e delle semenze, del granello di senape, di vignaioli, dell’albero di fico, riferisce di nemici del gregge, del “buon pastore” e della
pecora smarrita. La parabola di quest’ultima è nel vangelo di Matteo (18, 12 – 14), in quello di Luca (15, 3 – 7) e nel vangelo apocrifo di Giuda Tommaso che raccoglie i detti di Gesù (114).
Nel Vangelo di Luca c’è scritto:
“Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? E quando la trova se la mette in spalla contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. Questa è la prima delle tre parabole dette da Gesù in risposta ai farisei che lo accusavano di mangiare con i peccatori. Ciascuna delle tre parabole si riferisce alla perdita ed al ritrovamento di importanti entità: pecora, moneta e figlio.
Gesù fu inviato dal Padre per andare in cerca delle pecore smarrite (che rappresentano quanti si allontanano da Dio), per questo si intratteneva con i peccatori.
La metafora del pastore e del gregge è frequente nell’Antico Testamento per esprimere il legame che descrive il popolo di Israele come gregge di Dio condotto nel deserto e poi attraverso le vicissitudini della sua storia verso un atteso compimento (Is 49,95). Mosè, Giosuè, i Giudici e Davide sono chiamati “pastori”. In tempi posteriori i profeti risuonano di invettive contro i pastori infedeli (Ger 22,25; Ez 34).
Nel salmo 23 Dio viene descritto come “
buon pastore”. Nel Libro di Ezechiele (contenuto nella Bibbia ebraica (Tanakh) e cristiana) troviamo lo stesso concetto: "Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare... Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata...". Dio allude all’amore totale per ogni singolo e la perdita di uno lo ferisce perché ognuno è parte di sé. Non smette di cercare "finché non la trova".
L’arte paleocristiana, ispirata dall’Antico e Nuovo Testamento, nei primi tre secoli fu influenzata dalle mitologie, tipologie e decorazioni pagane, perché non aveva una propria tradizione, ma ai simboli pagani venivano attribuiti valori cristiani.
Tra le immagini ed i simboli della cultura greco-romana (che dava aspetto umano ai concetti astratti e alla natura) ci sono i temi pastorali. L'icona del pastore, poi denominato dai cristiani il "
Buon Pastore", in riferimento all'omonima parabola di Gesù: "Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore" (Gv 10, 11), trae l'iconografia dal "
crioforo" (= che porta l'agnello) uno degli attributi del dio greco Hermes, che in origine era una divinità pastorale e spesso veniva raffigurato con un agnello sulle spalle. I pagani consideravano l'immagine del crioforo come simbolo dell'humanitas, invece dai cristiani il "Buon pastore" veniva considerato segno della filantropia di Dio, il suo amore per l'umanità, rivelata in Cristo.
Roma, catacombe di Priscilla: affresco del “Buon Pastore”
Nel Vangelo di Giovanni c’è scritto: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di quest'ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”. (10, 11 – 17)
Gesù vuole far capire che il “Buon pastore” ama tutte le sue pecore come Dio ama tutte le persone.
La parte centrale del brano può essere riassunta nella frase: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore”. (Gv 10, 14 – 15)
Questa pericope da alcuni studiosi è considerata un’allegoria, oppure una metafora, ma non una parabola.