Autore Topic: Piramo e Tisbe (Parte 2)  (Letto 1027 volte)

Steven Joseph

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Piramo e Tisbe (Parte 2)
« il: Luglio 29, 2014, 11:29:54 »
Una volta a casa mi distesi sul divano e accesi la televisione. Niente di nuovo dal mondo. Il telegiornale parlava delle solite manovre del governo, degli incidenti del sabato sera e di una bambina scomparsa. A volte, osservando quelle immagini capivo come il mondo mi facesse profondamente orrore. Capivo che l’umanità non aveva mai imparato a rispettare la vita umana e a volersi bene. Pensai a quella bambina e a tutto quello che poteva esserle successo. Pensai ai suoi genitori, a come questi non riuscissero a rassegnarsi all’idea di non vederla più scorrazzare in casa urlando di felicità. Vedevo la foto che continuava ad apparire sullo schermo di lei al mare e me la immaginai proprio quel giorno quando, spensierata, giocava sulla sabbia. Chi avrebbe mai immaginato che la foto che per scherzo i genitori le avevano scattato, sarebbe diventata tristemente famosa. Ripensai a tutti i sogni di quella ragazzina: voglio diventare una principessa o che altro. E poi il nulla. Solo allora, alla fine dei miei pensieri pensai a lui: quella “persona” che aveva fatto questo. Non si sa perchè l’avesse fatto , perché avesse rovinato la felice vita di una famiglia che forse non conosceva neppure. Non volli soffermarmi oltre su di lui. Non meritava importanza. Tornai a fissare la televisione e vidi che, mentre ero perso nei miei pensieri, avevano già cambiato argomento. Era così per tutti quelli che morivano. Qualche minuto al telegiornale e poi nessuno ci pensava più. Decisi di spegnere quell’apparecchio infernale e rimasi sul divano. Chiusi gli occhi e poi avvertì un rumore dall’appartamento accanto al mio. Era lei. Per tutto il giorno quella donna era rimasta al centro dei miei pensieri. L’avevo inseguita per strada, l’avevo pensata al lavoro, l’avevo percepita al supermercato e adesso se avevo fortuna potevo persino sentirla cantare di nuovo. Non ero sicuro che lo facesse ma sperai fin quasi a stare male di udire una nota al pianoforte. Una sola e quella sarebbe stata la conferma che al mondo esiste il bene. Non sapevo chi fosse stato ad accogliere le mie preghiere, fatto sta che il pianoforte iniziò a suonare. Era una canzone che non conoscevo, ma non mi importava. L’importante era che io conoscessi quella voce. Quel timbro e quelle sfumature erano impresse dentro di me come sul marmo. Quella sera, però, notai che c’era qualcosa di diverso. Mentre la voce che avevo udito la sera prima era piena di malinconia, la voce che quella sera prese ad abbracciare il mio cuore era più vitale, più carica di energia e di speranza. Qualcosa era cambiato in lei. Qualcosa l’aveva trasformata.
Decisi improvvisamente di fare una cosa che mai il giorno prima mi aveva sfiorato la mente. Ripresi a lavorare al mio dipinto. Volevo che quella musica facesse da sottofondo al mio lavoro e pensai che non poteva esserci musica migliore che alimentasse la mia ispirazione creativa. Mentre le sue dita premevano sul pianoforte le mie guidavano il pennello sulla tela. Ormai eravamo diventati una cosa sola. L’arte si incarnava in noi. Le nostre menti producevano la bellezza e le nostre anime si univano senza saperlo in quei pochi attimi. Nessuna esperienza mai fatta prima di allora in vita mia poteva raggiungere questa a livello di trasposto emozionale, inoltre non mi ero mai sentito così ispirato mentre dipingevo. Forse soltanto quando avevo iniziato a dipingere da giovane e avevo la testa piena di idee che fremevano per diventare sostanza. Questo, però, era diverso. Era amore.
Da quella sera la mia vita cambiò radicalmente. Quella voce era il rimedio contro la mia solitudine e l’unico rifugio che mi poteva offrire protezione quando ne avessi avuto più bisogno. Ogni giorno, per tutto il giorno la mia attenzione era su di lei. Tutti i miei pensieri si perdevano nella sua voce e niente riuscì mai ad interessarmi di più. Per tutto il giorno aspettavo circa le sei e poi lei incominciava. Non aspettavo altro che lei. Io vivevo per la sua voce.
Da quella sera in avanti, il suo canto divenne una specie di routine per me. Ogni giorno più meno alla stessa ora lei si sedeva al pianoforte e io iniziavo a sognare. Mi mettevo davanti alla tela, dipingevo e lasciavo che la musica guidasse i miei pensieri. Adoravo quella voce, forse in maniera esagerata, ma da quando la conobbi, non seppi più farne a meno.
Una di quelle sere, una come tante in verità, stavo ascoltando come sempre la sua esibizione quando un’illuminazione mi folgorò. Ricordai il perché avessi messo il mobiletto di legno con sopra la televisione proprio in quel punto. Mi ero accorto anni fa che lì, proprio in quel punto, c’era una crepa nel muro. Esattamente nel muro che ci divideva. Decisi, così, di spostare tutto e la ritrovai. In fondo a cosa mi serviva la televisione? Con quell’angelo che cantava tutte le sere non potevo volere altro. La crepa non era molto grande per cui non riuscii a vedere quasi niente. In compenso, però, si ascoltavano benissimo anche i suoi respiri. Non volli interromperla, per cui lasciai che finisse. Era un segno. Dio aveva capito che non avevo il coraggio per conoscerla di persona, così decise di darmi una possibilità e ci mise in contatto. Da allora decisi che le avrei parlato. Volevo con tutto me stesso conoscere il nome di quella creatura benedetta che mi faceva sognare senza volerlo. Sentii la ragazza alzarsi e allontanarsi.
- A chi era dedicata quella canzone?-
Lei si bloccò. –Chi c’è?- fece spaventata.
- Sono il tuo vicino. E’ da molto tempo ormai che ti sento cantare e devo dire che…- mi interruppi quando la sentii avvicinarsi. – devo dire che mi fai sognare ogni volta-
La ragazza non parlò e si accostò alla crepa. – Oh mio Dio, tu...tu sei… Non immaginavo che abitassi…- sembrava confusa e balbettava qualcosa di incomprensibile.
- Come dici?-
-Niente. Sono…sono felice di conoscerti. Ti chiami?-
-Piramo- feci io. – Piramo Rossetti. Sono italiano. Tu?-
- Davvero? Beh, io invece sono nata nel Mayne. Dimmi, com’è l’Italia?-
- Meravigliosa. Mi manca molto, sai.-
- Immagino. Ho sempre sognato di visitarla. Io sono Tisbe Rutherford. Scusami se ti ho disturbato, ma quando canto non mi accorgo di niente. Mi dimentico persino di abitare in un condominio e che magari posso disturbare.-
-Ma che, nessun disturbo. Anzi, adoro la tua voce. Sembri un angelo, lo sai. Ho cercato molte volte di trovare il coraggio di bussare alla tua porta e di conoscerti, ma non l’ho trovato, così ti stavo ad ascoltare tutte le sere e le tue canzoni mi facevano dimenticare la gabbia nel quale il mondo mi ha rinchiuso. Sentendoti cantare mi sembrava di poter volare via. Via da questo schifo di città, via da tutto e da tutti. Non sai quanto sei stata importante per me in questi giorni.-
La sentii singhiozzare come una bambina. – Che ti prende, Tisbe?-
-Io… nessuno mi aveva mai parlato così. Non sapevo che fossi tutto questo per te.-
Io cercai di sbirciare dalla crepa ma non la vidi, capii che era appoggiata al muro, a fianco della crepa. Feci altrettanto e così ci trovammo schiena contro schiena se non fosse stato per quello strato di cemento che divideva i nostri due appartamenti.
Aspettai che si riprendesse e poi ripresi a parlare.  «Ogni sera, quando cantavi, io riuscivo a trovare la giusta ispirazione e così dipingevo senza fermarmi. In anni e anni di pittura non mi era mai capitato di essere così preso nel mio lavoro e questo è merito della tua musica»   
- Davvero? – la sentii nuovamente immergersi in un pianto che avrei voluto fermare a tutti i costi, se non fosse stato per quella parete.
- Ti piace davvero così tanto la mia voce? – chiese con la voce rotta dalle lacrime.
- Scherzi? -
Lei non rispose. – Adoro la passione che metti nella tua voce. -
La sua voce si fece seria, anche se l’eco del pianto si avvertiva ancora. - E’ frutto del male che il mondo mi ha voluto –
Rimasi paralizzato dalla freddezza delle sue parole, sia per il significato che per come le aveva pronunciate. Non volli interromperla e aspettai che continuasse da sola il racconto, se lo desiderava.
- Avrei tanto voluto calcare qualche palco importante, portare la mia musica in giro per il mondo e guadagnarmi da vivere facendo la cosa che adoro, però… beh ho capito che non funziona così. La vita mi ha costretto a lavoretti insignificanti per cercare di sopravvivere. I miei credevano molto in me, ma siccome la vita o Dio o chiunque ci sia lassù mi odia profondamente, mi sono stati rubati in una sera di febbraio. Da allora il baratro si è fatto sempre più profondo e, seppure mi illudessi che non potessi precipitare per tutta la vita, non riuscivo a non piangere - si interruppe. Forse ragionava su ciò che poteva o non poteva dirmi. – Quando tu mi hai detto che la mia musica è così importante per te, io…io ho visto la luce alla fine del tunnel. Ti ringrazio, Piramo. Grazie -
Sentivo che quelle parole provenivano direttamente dal suo cuore, senza censure o segreti. Sentivo nella sua voce tremante che non si aspettava quella mia reazione. – Adesso basta parlare di me, dimmi chi sei -  Le raccontai che anch’io come lei non avevo avuto molto dalla vita. Si sa, mentre il canto o la musica in generale sono molto richiesti, l’arte è… beh diciamo solo che non sono in molti a preferirla. Continuavo a sbarcare il lunario senza progetti per il futuro e senza che la vita mi offrisse mai un’ occasione per sorridere. Fino ad allora. Da quando per la prima volta la sua voce mi penetrò nell’anima tutto cambiò. Una scintilla di speranza accese in me la felicità, come un fuoco inestinguibile. Passammo l’intera notte a raccontarci, schiena a schiena, cuore a cuore. Sapevo che lei era la ragazza perfetta. Sapevo come era fatta, dentro. Il fuori non mi interessava. Era fragile, dolce. Aveva solo bisogno che la gente la apprezzasse. Forse da quando i suoi genitori se ne andarono lei non aveva più ricevuto un complimento. Mai. Magari riconoscevano la sua bravura, ma l’invidia e la presunzione tappava loro la bocca. Quando mi sentì le parve di udire i suoi genitori, le parve che loro fossero in me, discesi per dirle che ero quello giusto. Sentivo che niente poteva dividerci, neppure quello stupido muro. Ad un certo punto ebbi l’istinto di oltrepassarlo e andare da lei. In fondo bastava solo uscire dalla mia porta ed entrare nella sua. Le proposi se l’indomani ci saremmo potuti vedere. Avevo voglia di vederla nella sua fisicità. Volevo che Tisbe diventasse sostanza e non più solo una voce nella mia testa o al di là di un muro.
- Io… io… perché? Non ce n’è alcun bisogno. Perché dobbiamo?-
- Io voglio vederti, Tisbe. Voglio toccarti e capire come sei fatta - pensavo che queste avances fossero troppo fraintendibili, quindi decisi di tacere e sperai che non avesse colto.
- Io non voglio essere una delusione. La nostra storia è perfetta. Perché rovinarla? Chi mi dice che poi tu non voglia finirla con me perché non ti piaccio. Piramo, non riuscirei mai a sopportare una delusione così grande -
Cercai di tranquillizzarla e di dirle che il suo aspetto non avrebbe cambiato le cose, ma lei insistette. Non voleva che io la vedessi. Provai e riprovai a convincerla, ma lei rifiutò. - Non per adesso – mi disse. Capii quindi di avere una speranza. D’un tratto il mio occhio ricadde su una tela bianca messa in disparte e ancora da utilizzare. Ci pensai un attimo e poi mi rivolsi a lei. - Tisbe, ascolta. Ho in mente di iniziare un quadro. Voglio provare ad immaginarti e ad immortalarti sulla tela. Voglio provare a dipingerti-
- Ma tu non mi vedi, come farai?-
- Non serve che io ti veda, ma che ti senta dentro. Canta, parla e la tua voce guiderà la mia mano. Dipingerò quello che sei per me, come sei dentro e poi, una volta ultimato, ti inviterò a vederlo. Ci stai?- Lei aspettò qualche secondo prima di rispondermi. La sua risposta fu affermativa. In realtà non sapevo bene come avrei fatto ma sapevo che l’avrei finito in fretta perché quello era ciò che dovevo fare per raggiungerla. 
Dal giorno seguente la mia mente fu totalmente impegnata nella realizzazione del quadro. Così come Dio l’aveva immaginata e creata ispirandosi alla propria idea di bellezza e perfezione, così io avrei seguito la traccia che la sua voce mi forniva, creando la bellezza. Tornato dal lavoro lei cantava, io le parlavo, immerso nel mio lavoro, e lei mi rispondeva. Furono ore, giorni e settimane incredibili. Dipingevo utilizzando solo tonalità chiare. Sapevo che c’erano delle tenebre in lei ma io non le avvertivo. Per me lei era pura luce. Innanzitutto dipinsi lo sfondo. Sapevo che, se lo avessi tenuto per ultimo, probabilmente lo avrei realizzato con fretta e senza attenzione perché finire l’opera era un qualcosa che bramavo più del cibo. Decisi che la sua immagine, il vero soggetto del quadro, sarebbe stata realizzata dopo che tutto il superfluo fosse stato creato. Inizialmente avevo deciso di ritrarla nel mio appartamento, davanti a me. Quest’idea aveva un fondamento: speravo prima o poi di vederla con me, ma pensai subito di abbandonarla. Questa ragazza non poteva essere ingabbiata in un buio appartamento. Lei aveva bisogno di essere libera, per cui la circondai di natura. La immaginai in alto, più in alto del mondo. Dall’alto di una montagna lei si stagliava contro il magnifico cielo e una folta foresta si intravedeva sotto di lei. In lontananza un puntino grigio e confuso: la città. Niente era più importante di lei. Niente meritava di toglierle spazio. Lei era al centro del mio quadro e al centro di tutto. Dopo due settimane iniziai a realizzare lei. Per il tempo che lo sfondo aveva richiesto ero io che le davo da parlare. Parlavo e parlavo perché ciò che rappresentavo non aveva niente di speciale. Avevo dipinto così tante volte un cielo o un bosco, ma mai la perfezione. Da quando iniziai ad interessarmi alla sua figura parlai pochissimo, quasi sussurrando. Anche lei si accorse di questo e intuii che ero troppo concentrato per parlare. Sebbene parlassi meno della metà, ascoltavo il doppio. Le mie orecchie captavano la sua voce e il mio cervello rielaborava, trasformando l’emozione in immagine. Non era facile, per niente. Avevo lasciato una sagoma nello sfondo e adesso iniziai a riempirla. Era uno strano modo di dipingere, lo so, ma da sempre avevo fatto così e l’abitudine, si sa, è la migliore maestra. Non sapevo neanche io come riuscissi a prendere perfettamente le misure in cui inserire le mie figure, ma era una cosa che mi veniva naturale. Iniziai a dipingerla dal basso verso l’alto. Il viso sarebbe stata l’ultima e la più impegnativa parte.

nihil

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Re:Piramo e Tisbe (Parte 2)
« Risposta #1 il: Settembre 21, 2014, 09:06:46 »
non ci lascerai mica a questo punto!? molto bella l'immagine di due anime che si parlano attraverso un muro, che diventa come un un confessionale, dove si trova il coraggio di parlare. Mi lascia però perplessa la faccenda della crepa, che per essere agibile come nel racconto, sembrerebbe dover essere davvero uno schianto; rimane comunque un simbolo preciso.