Era uno specchio abbandonato a sé nella cantina in mezzo ad altre cose: fiaschi di vino e olio, cornici senza quadro, scarponi da lavoro e utensili per lavorare la terra.
Era poggiato ad una parete vuota, seminascosto da un tendaggio bruno, la sua cornice era di legno grezzo dipinta a mano e dai colori vivaci. Lo guardavo e basta e poi un giorno senza una ragione, avvicinandomi vidi ch'era tutto scheggiato. In realtà era semplicemente mangiato dall'interno, come se una granata, ai tempi della guerra, lo avesse colpito al cuore e fosse rimasto intatto solo con il corpo. Buchi a chiazze, e poi tante macchie, il tempo quello specchio sapeva cosa fosse, ce lo aveva tutto stampato nel suo corpo.
Me lo portai a casa, così senza pensarci, perché potesse parlarmi solo con la presenza fatta di momento e segno.
Non so perché, ma era come se ci leggessi dentro a tutti quei segni, storie di tanti e tutti, soldati, guerra e sofferenze, magari anche ideali qua e là disseminati, e perché no anche lamenti di bimbi ancora in fasce, di madri intente a prepare la cena o il pranzo o forse anche niente dentro ad una cucina scaldata dalla brace, e qualche tozzo di pane solamente.
Storie di pescatori senza ritorno a casa, di vecchi seduti ai bordi delle strade, narratori per una notte. Di vino, quello dentro le botti ad invecchiare e di quel niente dei poveretti quando ce n'erano a masse, di ferrovia e sogni volati via, e di una culla fatta di cesta appesa al suo soffitto.
Così la sera ascoltavo quelle storie e poi mi addormentavo, magari avrei sognato.