“Chi disprezza, compra” è un vecchio proverbio delle mie zone, con varianti anche in altre parti d’Italia ma stesso contenuto in morale. Ma spesso i mezzi utilizzati per disprezzare un lavoro scritto, racconto, poesia o qualunque cosa essa sia, nel non voler ammettere che piace, istiga o anche eccita fantasia e altro, sono testimoni di ben altro spessore, comportamento e indole. Al punto di aggrapparsi a motivazioni specchio di schemi o limiti ben precisi e succinti, che lasciano poco spazio all’invocato confronto, giudizio e dialogo, educato, diretto o politico che esso sia. Succede e succederà, che il giudizio sarà storpiato pur di non ammettere il bello, l’elegante come spontaneo, l’aver presentato campi diversi su cui poter brucare, arricchirsi del diletto, dell’impegno altrui, fino ad accusare di egocentrismo o megalomania. Questo non porta bene, non porta a un piacevole distacco, a una sosta per una lettura diversa dai classici o autori affermati che siano. Vorrei portare a riflettere su queste poche righe, che sento qui dentro molto vicine.