A Tim Park ha risposto l'avvocato Fabio Macaluso, esperto di comunicazioni e diritto d'autore, per dirgli “Sì, il copyright ha ancora senso”.
Secondo l'avvocato Macaluso "Sono sempre di più a pronunciare il de profundis del copyright, suggerendo che esso debba decadere perché, come affermato da un noto letterato inglese, esso <<crea anche spazzatura>>. Si ritiene che il diritto d’autore orienti la ricerca e la produzione dei talenti verso opere dal miglior ritorno economico, imborghesendo gli artisti che perderebbero di motivazione per contrapporsi ai sistemi sociali consolidati. Si pensa anche che il copyright, che assicura rendite prolungate nel tempo, non è il corretto incentivo per la produzione artistica e culturale, piuttosto un <<biglietto della lotteria>> cui gli autori accedono per tentare di diventare milionari.
Questi ragionamenti sono suggestivi. Essi poggiano però su una base errata. Il copyright non è l’unico elemento che motiva lo sforzo creativo degli artisti. Lo ha spiegato molto bene lo scrittore americano Steve Johnson, autore di un saggio di grande successo sulla storia naturale dell’innovazione, che dimostra come le buone idee siano generate da componenti diverse, che si combinano fra loro. Tra queste, le associazioni casuali di idee, il desiderio insopprimibile del superamento dei generi (Schönberg inventò la dodecafonia nel solco di maestri come Liszt e Wagner), o gli stessi errori utili su cui hanno prosperato le avanguardie (si pensi solo al fenomeno musicale del Punk degli anni settanta dello scorso, cha ha elevato gli errori quasi a sistema).
A questi elementi se ne accosta un altro, anch’esso naturale e senz’altro incomprimibile: il desiderio di ognuno di affermare la paternità di una nuova espressione e rivendicarne la legittima titolarità (o, più comunemente detta, la proprietà). Qui entra in gioco il copyright, che assicura il vincolo tra l’autore e la sua opera, conferendo i diritti morali (sempre trascurati, nonostante la loro importanza) e patrimoniali. Non è decisivo che esso sia un diritto naturale o meno, perché i processi innati di creazione e la loro incentivazione morale ed economica camminano insieme, condizionandosi a vicenda: nel <<brodo primordiale>> delle idee è inserito un innesco artificiale che agevola la loro affermazione. E non può sfuggire che le opere d’autore, per non rimanere confinate alla conoscenza di élite ristrette, devono essere accessibili attraverso la loro commercializzazione. Ad esempio, senza le gallerie non sarebbero emerse i lavori di schiere di grandi artisti, selezionate dai mercanti d’arte per esclusivi fini economici. Così, il genio selettivo e il denaro di Ambroise Vollard hanno affermato i dipinti di Picasso o Rouault e se probabilmente ci siamo persi qualche talento rimasto sconosciuto, questo fa parte del destino umano se anche un artista come Van Gogh <<raccolse>> il suo successo solo dopo la morte. Indirizzare la produzione artistica verso fini mercantili è dunque un dato scontato e per questo la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo prevede che ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti dalla produzione letteraria e artistica di cui sia autore, non tralasciando la salvaguardia degli interessi patrimoniali di cui quest’ultimo.
Solo questo meccanismo permette l’emergere delle avanguardie, che si esprimono in quanto finanziate attraverso la commercializzazione dei prodotti di consumo più facile. Gli editori hanno in collana i grandi scrittori, ma anche autori meno ovvi, così come la Deutsche Grammophone pubblica contemporaneamente un’esecuzione di Beethoven e le opere di Luciano Berio, che hanno valore culturale elevato ma una potenzialità commerciale irrilevante. Il processo di imborghesimento e uniformazione degli autori è così ristretto proprio dai meccanismi del diritto d’autore, che, se eliminato o fortemente limitato, renderebbe la produzione culturale appannaggio dei ricchi, gli unici in grado di speculare intellettualmente senza preoccupazioni di natura materiale. Più pericolosamente, l’irragionevole compressione del copyright favorirebbe la concentrazione dei grandi player del mercato, soprattutto quelli operativi in Rete. Un’oligarchia di poche imprese, alleate tra di loro, imporrebbe prodotti <<troppo uguali>>, con buona pace del diritto al pluralismo culturale. Mettendo inevitabilmente fuori mercato i numerosi editori tradizionali (con o senza carta), la cui funzione, come ha spiegato recentemente Antoine Gallimard, consiste nell’insieme delle operazioni della <<lettura e la selezione dei manoscritti, il lavoro sui testi e le immagini, l’accompagnamento e la difesa degli interessi degli autori, la forza di proposizione dei nuovi progetti, le traduzioni, la promozione e la distribuzione>>. E’ difficile quantificare esattamente il valore di queste attività, ma è certo che il ruolo degli intermediari culturali appartiene al DNA delle società evolute e si spera che mai un editore come Gallimard, a causa dell’attacco al copyright, sia acquisito da un fondo pensioni, una società di telecomunicazioni, o, peggio ancora, posto sotto il controllo dello Stato."
L'avvocato Macaluso evita di entrare nel merito della durata di 70 anni del copyright. Questo a mio parere dovrebbe terminare con la morte dell'autore, invece nel modo vigente gli eredi, fino ai pronipoti, godono di rendite parassitarie senza meriti, magari senza aver conosciuto il loro benefattore.
Ai 70 anni del copyright è collegata in parte anche l'esistenza della S.I.A.E. (Società italiana degli autori ed editori) che riscuote i proventi, in parte destinati a se stessa.
La SIAE fu creata nel 1882 a Milano in forma associativa come "Società degli autori", voluta da scrittori, musicisti, editori e autori allo scopo di promuovere e salvaguardare la tutela del diritto d'autore che si traduce in denaro.