Fin che morte non vi separi
Anita entrò in camera da letto e aprì subito le finestre per cambiare l’aria. L’odore di malattia e medicinali era presente come una ragnatela. Alla morte del marito, avrebbe buttato via i mobili e fatto imbiancare tutta la stanza.
Richiuse le finestre e si avvicinò al letto. Il marito era stato un omone, ora pareva un pezzo di legno rinseccolito, nulla più ricordava la sua vivacità e allegria. Le mani appoggiate sul lenzuolo non avevano più vita, non erano più in grado di accompagnare i discorsi brillanti e sagaci che anni fa lo avevano reso tanto una gradita compagnia.
-Come va oggi, Arturo?-
- Come ieri Anita, male. Ma quanto tempo ci si mette a morire?-
-Siamo nelle mani del Signore Arturo, possiamo solo confidare in Lui.-
Anita non era mai stata religiosa, ma non sapendo cosa dire, cercava frasi fatte che dicessero tutto e nulla.
Arturo chiuse gli occhi.
Lei si sedette sulla poltrona accanto al letto, in silenzio; solo le parole erano mute, i suoi pensieri erano squillanti, taglienti e aspri. Dolorosi.
Non poteva evitare di guardare quelle mani bianche e secche, ora parevano morte solitariamente, come se si morisse a rate, un pezzo per volta.
Quelle mani qualche volta l’avevano accarezzata con tenerezza, erano state le prime ad esprimere il suo interesse per lei: si erano strette alle sue e avevano espresso solidità, affidabilità e futuro.
Così aveva voluto credere.
Ripensò a quel giorno di primavera, quando avevano camminato per ore in riva al mare chiacchierando e conoscendosi. Le sembrava persino che le si fosse allargato il torace dall’emozione ed il cuore dilatato dalla gioia. Non poteva crederci: Anita la brutta della scuola e Arturo il bello del paese.
Non poteva crederci, ma sapeva che era vero.
Aveva dentro di sé tanto da dare, dopo un’adolescenza vissuta tra solitudine e timidezza, aspettando che qualcuno la invitasse ad una festa o al cinema non solo per fare numero, per convinzione.
Durante il fidanzamento, che era durato solo pochi mesi, se lui per motivi di lavoro si recava all’estero, lei si consolava rivivendo i momenti passati e fantasticando su quelli futuri, vivendo quindi contemporaneamente il passato, il presente ed il futuro. Ed era felice.
In un certo senso si sentiva come arrivata a casa dopo una lunga corsa e il suo rifugio si chiamava Arturo.
Aveva vissuto intensamente i suoi sentimenti, non accorgendosi di altro..
-Anita, ho i dolori, mi fai l’iniezione?-
- Certo, subito.-
La donna spezzò la fiala, non aspirò il contenuto e gli fece l’iniezione.
Ad ogni fiala spezzata dava un nome.
La prima era stata Mimosa. Era la fragranza che aveva sentito sulla sua camicia abbracciandolo dopo un solo un mese di matrimonio; non era certo il suo profumo, lei era allergica alla mimosa.
La seconda fiala l’aveva chiamata Miranda, come la moglie del socio di suo marito. Poverino, chissà se lui l’aveva mai saputo. Anche lei fu scaricata in breve tempo a favore di Rosalia, la farmacista.
Non tanto i tradimenti avevano ferito Anita, quanto il sentirsi colpevole di non essere adeguata ad Arturo. Perché un uomo bello e ricco avrebbe dovuto accontentarsi di lei, se non proprio brutta, sicuramente insignificante?
Forse Arturo aveva deciso di sistemarsi con una donna che non gli avrebbe dato problemi, una specie di balia onesta e passiva, ecco la risposta.
Si rendeva conto solo ora di com’era stata stupida a macerarsi nella convinzione di essere una nullità, perdonando tutto e sforzandosi pateticamente di essere migliore. Aveva cercato di leggere cose sempre più impegnative per farsi una cultura, era andata ad orribili mostre d’arte moderna, si era fatta torturare dall’estetista e aveva patita la fame per non ingrassare.
Aveva cercato di diventare la donna che immaginava fosse l’ideale di Arturo, non accorgendosi che a lui proprio non importava; aveva a disposizione un sacco di ragazze che non avevano bisogno di nessuno sforzo per essere splendide, anche se magari un poco stupide.
La svolta alla sua vita l’aveva data il vestito di Armani di seta grigioargento che tanto d’accordo andava con la sua nuova tinta di capelli. Si sentiva fatale e bellissima; forte di questa nuova sicurezza, aveva insistito per andare al ricevimento del dott. Gotti, ma il marito si era appartato con Laura, lasciandola sola a fare da tappezzeria, in mezzo ad una moltitudine di sconosciuti che parlavano solo d’azioni, società e affari.
Una frase colta al volo l’aveva tramortita:- E’ venuto Arturo, questa sera? C’è anche quella poveretta di sua moglie?-.
Aveva capito che tutti sapevano e lei era diventata “quella poveretta”.
Tornò a casa in taxi.
Smise semplicemente di amarlo come se avesse chiuso un rubinetto, ibernata nel suo dolore, lei stessa sorpresa di quanto fosse stata in grado di sopportare, innamorata forse più dell’amore che dell’uomo.
In anticamera si era guardata nello specchio e si era detta con coerenza e determinazione: io mi basterò.
Era restata con Arturo, ma in modo diverso, quasi anonimo, tagliando il cordone ombelicale dell’amore, che l’aveva tenuta sottomessa per tanto tempo.
Aveva vissuto gli ultimi anni una vita parallela a quella di suo marito, decidendo d’essere prima una persona e poi a volte, se le andava, moglie.
- Anita l’iniezione non mi ha ancora fatto effetto, fammene un’altra.-
- Va bene, ma devi avere pazienza, non se ne possono fare troppe, cerca di sopportare.-
Spezzò la fiala, come al solito non aspirò il contenuto e fece l’iniezione, mentre pensava che questa si sarebbe chiamata Eliana.
Lo avrebbe badato fino alla fine; nessuno avrebbe potuto criticare la sua abnegazione.
Lo avrebbe guardato morire lentamente con dolore, come lentamente e con dolore era morta lei, incapace d’amare di nuovo per paura di soffrire.