Devo ancora sfoltirlo ma spero vi piaccia
Ok, ora dovrebbe essere leggibile
Un'uscita
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Erano a tavola quando il padre gli chiese:
"Dunque, oggi?"
"Oggi cosa?" rispose lui rimestando con il cucchiaio nella minestra.
"Niente."
E tornarono a mangiare tranquilli. Non volava una mosca. Poi la signora F., che da tempo guardava marito e figlio senza toccare cibo, disse:
"Dunque, oggi?"
Alla domanda entrambi alzarono la testa dal piatto. D. aveva un rigagnolo di brodo sul labbro, l'aria infastidita e gli occhi persi nel vuoto. Il signor F. lo esortava a rispondere usando il gomito, si puliva i baffi con il fazzoletto. "Dice a te," borbottò.
"Sicuro che dica a me?"
"Sì, siamo sicuri." disse la signora F.
"Non so..." disse D.
"Non sai cosa?" disse la signora F.
"Basta, basta," disse il signor F., "Se non vuole, non vuole, non sono affari nostri, in fondo", concluse, e nonostante il tono rilassato prese a mangiare con voracità, sicché buona parte della minestra gli colava dalle labbra sino al piatto. Il signor F. era un uomo corpulento, testa da rinoceronte ed occhietti spenti. Lo annoiavano le tiepide minestrine, i polentini insipidi, tutte quelle cose che tolgono piacere allo stomaco. Era di certo più avvezzo alle porcherie, lui, eppure aveva quasi terminato l'insidiosa pietanza. La moglie lo aveva messo a dieta forzata; nel vederlo così cooperativo lo applaudì a scena aperta, tanto che il figlio, vergognandosi della situazione, la rimproverò aspramente.
"Dunque, oggi?" ribatté lei, "Dovrai pur fare qualcosa oggi."
"Credo che... credo che uscirò."
"Sarà meglio. Guarda che ora è!," disse la signora F., e svelta indicò il grande orologio vicino alla finestra. Erano le nove in punto. Fuori, nella notte di un cielo vuoto, il vento agitava le chiome degli alberi. I lampioni mandavano una luce uniforme sulle strade deserte.
"Sì, sì." disse D. alzandosi da tavola e afferrando la giacca abbandonata sulla sedia.
"Guarda, guarda, sto uscendo mamma... vedi? Esco." disse ancora, ed evidentemente stizzito si concentrò sui guanti che stava indossando; tremava da capo a piedi, sul punto di scattare da un momento all'altro.
"Come, esci adesso?" fece la madre, anche lei già in piedi e fermente. "Finisci prima di mangiare, no?"
"No, esco. Vuoi che esca, no? Allora esco."
"Fai come ti pare." sbottò lei, rossa in volto.
"Ma cosa ti prende?"
"Esci con lui, vero?" chiese ora più pacata, e si mise di nuovo seduta, le braccia incrociate, gli occhi fissi sul marito. Questi sembrava inerte, la testa sul piatto vuoto, come colpito da un ictus.
"Bah..." sbottò lei, che forse cercava nel marito una qualche reazione alla sortita del figlio; poi, vedendo che quest'ultimo si stava già appressando alla porta, scattò giù dalla sedia.
"Allora?!" urlò, agitando un pugno, "Esci con lui, vero!?"
"Sì," sospirò D., ormai oltre la soglia, "Io, lo trovo... lo trovo interess..."
"Sei un bugiardo!" urlò ancora la madre.
"D." gli voltò le spalle e proseguì sul vialetto, verso il cancello che dava sulla strada. La signora F. lo rincorse per un bel pezzo. Lo tirava per la giacca, sbraitava parole terribili, e "D." fu costretto più volte a darle qualche strattone per levarsela di dosso.
Quand'era ormai lontano, sebbene il vento gli fischiasse nelle orecchie, aveva l'impressione di sentire la voce della madre. La ricordava piegata in due sul giardino di casa, il volto straziato dalle lacrime, le mani imploranti alzate alla luna. Rise a quell'immagine, e continuò sulla sua strada.
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D. aspettava l'amico nella piazza principale della città, al solito posto convenuto, sotto il monumento: una statua di donna che brandisce una spada. Ha gli occhi tristi, davvero tristi sebbene scolpiti nella pietra. L'arma è sguainata verso il cielo senza stelle.
C'era il freddo pungente dell'inverno inoltrato. La città era deserta, pochi passanti sotto grandi ombrelli neri. D. si era dimenticato il suo, ma non aveva voglia di ripararsi. Il suo amico era in ritardo, un'ora circa, come sempre; la tristezza era troppa persino per trovare un rifugio. Così si era spento, aveva ingannato il tempo immergendosi nelle mura degli antichi palazzi. L'architettura barocca, le ampie arcate, i marmorei balconi; tutte cose che conosceva a memoria, e che osservava solo per svuotare la testa.
Poi sentì la voce dell'altro:
"Ehi."
Era lì di fronte, un ombrello in mano, ammiccante sotto le folte sopracciglia nere. Sembrava al colmo della felicità. Ad influire su quest'impressione vi era il suo abbigliamento: un impermeabile rosso vivo, due volte più grosso di lui.
"Sei in ritardo." lo ammonì D., senza troppa convinzione.
"E' vero," rispose C. Le labbra e il volto gli tremavano. "Ma tu mi hai aspettato, sì, sì" disse con voce squillante, attaccandosi alla mano dell'amico e tirandolo a sé; poi lo guardò in faccia e scoppiò a ridere. La lingua gli usciva a scatti dalla bocca.
"Non puoi arrivare sempre in ritardo," disse D., per nulla turbato.
"Posso, se tu mi aspetti." si riprese quell'altro, ora serio ed immobile.
"Anche questo è vero," rispose D.
"Senz'altro vero," concordò C.
Si erano incamminati in silenzio, sotto la pioggia. D. tentava di tenerlo vicino a sé, voleva dargli il braccio, camminargli a fianco, ma C. si scostava, a volte guardandolo con disprezzo, altre volte ridendogli in faccia. Presero vicoli bui, dove le pareti degli edifici sembravano quasi toccarsi. C'era odore di muffa, di chiuso. D. non aveva le scarpe adatte, e ben presto cominciò a sentire i piedi intorpiditi, i calzini bagnati. Non parlavano di nulla, guardavano per terra, sospiravano o sbadigliavano.
"Dove stiamo andando?" chiese D., fermandosi e trattenendo l'amico per l'impermeabile.
"Non so." disse C., e scaltro si mosse per liberarsi.
Ma D. lo prese per le spalle e lo guardò dritto negli occhi. Le mani gli tremavano, il volto era teso, cercava un po' di coraggio dentro di sé.
"Ogg-g-ggi," balbettò, poi prese fiato, poiché era diventato viola, e concluse più sereno: "Oggi ci siamo sentiti. Volevi fare qualcosa, mi hai detto."
"Si, penso sia vero." disse C., e sputò un altro risolino.
"Ok", fece D., scostandosi da lui e osservandosi i piedi. "Quindi? Cosa facciamo?" chiese titubante.
"Camminiamo, facciamo un giro." disse C.
"E dove andiamo?"
"Non so." rispose C.
Tornarono a camminare, e ben presto tornarono a fermarsi.
"Da qualche parte potremmo andare." propose D. a bassa voce.
"Il solito posto?" si arrese C.
"Il solito posto." concluse D., sorridendo per la prima volta.
Il pub in cui entrarono era affollato. Sedettero su una panca, ad un tavolo unto. Fumo, mormorio da chiacchericcio, risate, urla concitate, qualche coro da stadio. Le luci erano rosse e soffuse, musica pesante, incomprensibile a tratti. Passò mezz'ora prima che qualcuno si degnasse di prendere l'ordine. L'amico di D. ci mise altrettanto a scegliere. Infine presero patatine fritte e vodka. Mangiarono a sazietà, ingurgitarono ogni cosa senza mai guardarsi in faccia.
Erano ancora tra le strade, camminavano in silenzio, ora più distanti l'uno dall'altro, e per giunta con lo stomaco distrutto. D. sentiva una profonda nausea, avrebbe voluto vomitare, ma gli sembrava quasi inutile a questo punto. Uno strano vuoto gli tormentava l'animo: non si doveva fare qualcos'altro in quella sera?
Guardò C. come si guarda una cosa qualsiasi, ma una cosa qualsiasi che si ama. Sì, lui lo amava, ma non sapeva come dirlo, né a lui né tanto meno a se stesso. Dentro di sé era poco più che un sussurro, una certezza infondata nei fatti. Perché mai avrebbe dovuto amarlo?
"Senti," gli disse C.,"tu cosa vuoi fare? Altrimenti io andrei a casa."
"Potremmo giocare." propose D.
"Giocare? Sul serio?" rispose C., che non credeva alle sue orecchie, e istintivamente prese la mano a D. Questi ebbe un sussulto, poi un sorriso nervoso.
Così mano nella mano si avviarono, diretti alla meta predestinata. D. si sentiva felice: ora si sarebbe fatto qualcosa! Sì, certo, sapeva già cosa, ma questo non importava: "Andrà tutto bene," si diceva fiducioso. Lui odiava giocare, mal sopportava quel genere di cose, eppure, che altro fare?
Giunsero in un'altra piazza, nella periferia. Qui gli edifici erano molto più alti e opprimenti, con tutte le finestre accese nel buio della notte. Si udiva il latrare di molti cani.
Grandi pioppi si ergevano tra le aiuole disposte a triangolo nella piazza spazzata dal vento. Giornali ed altre cartacce rotolavano ovunque. Al centro c'era un'ampia discesa - uno scivolo scavato nell'asfalto - e sul bordo di questa tantissime sfere colorate.
"Andiamo! Forza, alle grosse biglie!" gridò C., trascinandosi dietro l'amico. E nella notte, indifferenti alla pioggia, si scagliarono sulle sfere con ferocia, colpendole e ridendo, buttandole giù dalla rampa in uno sfogo infantile, quasi volessero esorcizzare una paura inesprimibile a parole. D. si sforzava di partecipare alla gioia dell'amico, ma poi ci prese gusto: quella che gli era sempre sembrata un'idiozia, ecco che in quella notte lo liberava da ogni preoccupazione. Guardava ora C., ora le enormi biglie che si scagliavano nel baratro cozzando l'una sull'altra. Ah! Quanta felicità in corpo!
A lungo andare gli venne meno il fiato, si sedette a gambe incrociate per terra, rosso in volto dalla fatica. D. neppure se ne accorse, preso com'era dal suo gioco. Spingeva, urlava, spingeva, e a C. per un attimo sembrò che il numero delle sfere non diminuisse, che il gioco non potesse mai finire. Gli venne a noia guardarlo, e nuovamente uno strano vuoto gli pervase l'animo. D'istinto guardò il cielo a caccia di una luce, ma non una sola stella si mostrava, persino la luna era oppressa dalle nubi. Improvvise le lacrime gli sgorgarono dal viso, sintomo di una tristezza a lungo repressa. Gli piaceva molto scrivere, si portava sempre dietro un taccuino. Poeta scansafatiche lo chiamava qualcuno. Per dimostrare a sé stesso che qualcosa sentiva, prese la penna e scrisse di getto:
"Nell'universo sei loquace
muta luce finita che non posso capire,
nella certezza del vuoto
pietrifichi il cuore,
eppur ti sento
e ti voglio amare."
Nel leggerla si asciugò le lacrime, esaltato dai suoi stessi versi. C. gli si fece accanto, silenzioso, e senza farsi notare lesse quel che l'amico aveva scritto.
"Allora a modo tuo anche tu sei un'idiota." gli disse.
"Idiota?" chiese affranto D.
"Sì, le idiozie che hai appena scritto."
D. dapprima corrugò la fronte, mise via il taccuino, colpito nell'ego, sentendo vergogna per sé stesso e disprezzo per quelle parole incuranti dei suoi sentimenti. Cosa voleva da lui quel cretino che lo aveva portato ad abbassarsi a un comunissimo gioco di biglie? Lui era superiore! Solo lui poteva capire!
Poi C. scoppiò nel suo ennesimo risolino e gli cinse il collo con un braccio, facendosi sempre più vicino, sempre più vicino. D. sentì un brivido lungo la schiena, una verità implacabile infondergli l'animo, e rileggendo i suoi versi non poté fare altro che dire, felice:
"Sì, hai ragione, ho scritto proprio un'idiozia."
E di quelle ultime parole risero insieme, innamorati senza perché, vicini nella notte infinita priva di luce.
Il vento continuava a soffiare, i pioppi mormoravano inquieti, cercando inutilmente di farsi capire.
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Quando la mattina dopo, al nuovo calare del giorno (poiché la notte difficilmente è infinita nel vero senso della parola), D. fece ritorno nella casa paterna, fu per prima la madre a chiedergli:
"Allora, com'è andata?"
"Una merda, al solito" rispose lui, facendo spallucce. "Una noia mortale."
"Te l'avevo detto," disse lei ridacchiando, "quando ti decidi a mollarlo?" E visto che anche l'adorato figliolo rideva, la madre propose di berci sopra.
Nelle due ore successive si ubriacarono senza patemi di sorta. Il padre non partecipò, la sua testa era ancora buttata sul piatto dalla sera prima. Qualche mosca gli ronzava attorno: la dieta era stata troppo severa.