Isabela
Isabela aveva una figlia di dodici anni, Cloe, e faceva la colf ma non era l’unica cosa che sapeva o avrebbe potuto fare.
In Argentina era stata architetto. Solo laureata, con nessuna esperienza, ma se lo ricordava molto bene adesso come si era sentita ad indossare quel nome: architetto. Indimenticabile come la carezza di un vestito di seta o il corpo di un amante avvinghiato al suo: si era sentita desiderata dalla vita, invincibile.
Quell’uomo italiano con i capelli rossi lo aveva conosciuto una sera a Buenos Aires. Stefano, commerciante di vini pregiati, si trovava in quel locale per lavoro, forniture. Quando la sentì cantare si stava avviando all’uscita.
Lei cantava in quel locale per divertirsi, senza nessuna ambizione di notorietà, forse per questo metteva dentro ogni canzone quel diluvio spensierato di energia. La musica accendeva il velluto nero dei suoi occhi, si riversava nelle anche solide e prima d’invadere tutto attorno a lei, esplodeva nel guizzo rosso di quella bocca sfrontata.
Cantava e ballava il flamenco nella terra del tango: tipico del suo carattere imprevedibile.
Stefano aveva quarant’anni, lei venticinque. Un corto circuito di desiderio, assoluto, oscurò tutto il resto e crebbe fino al delirio, all’amore consumato ovunque, ai tentativi inutili di estinguere quella fame.
Si sposarono dopo due anni, dopo tre nacque Cloe. Aveva i capelli rossi.
Stefano la guardava dormire, poi portava con sé per strada, al lavoro, quella piccolezza morbida, quell’odore di borotalco, l’immagine di quella bocca avida attaccata al seno.
Cloe era divenuta uno strato di lui, del suo carattere, del suo nuovo sguardo sul mondo.
Isabela si prendeva cura di “quei due con i capelli rossi” come le piaceva chiamarli ma trovò anche il tempo per aprire un localino; la sera accoglieva avventori a cui piaceva vederla ballare, sentirla declamare poesie e cantare “ Gracias al a vida que me ha dado tanto”.
Cloe cresceva in una grande famiglia di nonni, zii e zie, cugini, amici. Sembrava a suo agio in quel chiacchierio continuo, in quella lingua dolce come una nenia cantata.
Ma il padre per lei era altro: loro erano “quei due dai capelli rossi”, quasi superstiti di un’antica progenie estinta.
Cloe aveva tre anni quando Stefano si ammalò.
Giorno dopo giorno, medico dopo medico, cura dopo cura dopo farmaco dopo speranza dopo tutto, Stefano chiese ad Isabela:
- Voglio tornare a casa Isabela, portami in Italia.
Si spensero le luci del locale. Si spense la musica. Si spense il chiacchierio argentino.
Lo avrebbe portato ovunque lui volesse. Isabela non aveva più quella furia dentro, quel suo turgore di vita iridescente. Aveva spento il corpo, il cuore, la pelle, qualunque cosa potesse ricordarle che lei era viva e Stefano stava morendo.
Divenne una macchina, incapace di sentire la fatica, giorno e notte si occupava del marito e della figlia. Come un volontario accorso sul luogo di un disastro, scavava nelle macerie della sua esistenza, mortificata da quell’improvviso voltafaccia della vita.
I genitori di Stefano erano morti, era rimasto solo una fratello che gli lasciò la casa dei genitori in via Porto di fronte al mare, e se ne andò a vivere altrove.
Rimasero soli.
Una sera Cloe si era appena addormentata e Isabela stava riordinando in cucina. Sentì Stefano che la chiamava. Accorse.
Era seduto sulla sua poltrona, la pancia gonfiata dalla cirrosi, come una marea che avanza da dentro e dissolve le forme umane, spalancandole come scatole aperte svuotate di vita.
- Stefano sono qui.
Lo accarezzò, gli baciò gli occhi colorati sinistramente dall’ittero, si sedette sul bracciolo della poltrona: guardavano le luci galleggianti sull’acqua del porto.
- Isabela
- Si
- Faresti una cosa per me?
- Certo
- Balleresti come quando ti ho conosciuta?
Isabela sorrise. Era talmente lontana quella ragazza spudorata, faceva quasi fatica a ritrovarla nella sua memoria.
- Isabela, balla per me ti prego.
Capì in quel momento quanto fosse stanca, disperata, con le mani screpolate, il grembiule da cucina, le forcine nei capelli.
- Balla per me, amor de mi vida
Si alzò. Aveva cento anni. Si tolse le scarpe, il grembiule, lasciò andare i capelli, mise su quel vecchio disco, spostò la poltrona verso il centro del salone: il suo proscenio.
Non era mai stata così bella. Lentamente la vita si rimpossessò dei suoi piedi nudi, delle sue gambe, cosce, sesso, natiche, ventre, seni, braccia, collo, bocca e infine, occhi.
Il velluto nero profondo dei suoi occhi si riaccese. La musica ridestava lentamente quel corpo, s’ingrossava dentro di lei, si divertiva ad inarcarla, a scuoterla con lampi di accordi rasgueados, strappati. Era solo musica adesso, solo vita, solo respiro, una cosa sola con quell’uomo che stava danzando con lei ora. S’immaginava in piedi, le cingeva la vita, intrecciava le sue mani, seguiva lo scalpitio fulmineo dei suoi piedi nudi.
La musica li schiacciava uno contro l’altro, li sollevava sul tetto dell’onda sonora e poi giù giù fin nelle viscere della vibrazione, sbalzati fuori solo all’ultimo, all’ultimo momento, nell’ultimo salto, nell’ultimo salto ansante.
Quando la musica tacque, Stefano sembrava assopito. Sorrideva.