Era una casa a piano terra la sua, il finestrone della camera da letto dava sulla strada dove passavano solo macchine. Lei guardava quello scorrere continuo dai vetri e poi si sedeva su una poltrona ormai vecchia e leggeva tutti i giornaletti religiosi che le lasciavano nella buca delle lettere come pubblicità. Un grande soggiorno e poi un bagno e una piccola cucina completavano la sua casa che non prendeva mai il sole, era soltanto lambita dai raggi, mentre le altre finestre davano nel cortile interno dove c'era un piccolo giardino che poi fu spianato per fare i parcheggi alle macchine.
Lei abitava lì con le sue piccole cose, due gattini di ceramica, i ritratti ritoccati avvolti nei sacchi di plastica e custoditi in un armadio, le bambole con i capelli rossi sedute sulle sedie, i fiori di plastica e le carte colorate. Trascorreva il suo tempo lavorando a maglia e le uniche cose che riusciva a realizzare erano le calze di lana. Tutti i figli le portavano sacchi pieni di rimanenze di vari colori, blu, verdi, gialli, marroni, bianchi e grigi e lei ne ricavava calze dai suoi ferri. Era l'unica che le sapesse fare.
Un giorno sua nipote le portò due belle cosce di pollo e le disse che avrebbe pranzato con lei. E in quella cucina piccola furono cucinate al brodo con le patate, lì dove non batteva il sole e si sentiva il calore fatto di altro. Un piccolo tavolo, due sedie e una tovaglia a scacchi bianca e rossa e due cosce di pollo al brodo fumanti. Qualche parola, mentre di spalle pensava a cucinare, i suoi capelli ondulati e grigi raccolti in un piccolo tuppo e fermati con due forcine di osso, le mani ormai scarnite e macchiate e un sorriso innocente.
Il sapore in quell'attimo, la presenza un ricordo.