Autore Topic: Pietro Bembo e la lingua italiana  (Letto 2653 volte)

Doxa

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Pietro Bembo e la lingua italiana
« il: Settembre 18, 2015, 08:12:24 »
Gli scrittori non devonocercare e procacciare d’esser letti ed intesi dagli uomini che vivono”, ma “por cura di piacere molto di più alle genti che sono a vivere dopo loro”, perché “ciascuno la eternità alle sue fatiche più ama, che un brieve tempo”, e dunque “alle nostre composizioni tale forma e tale stato si dia, che piacer possano in ciascuna età et ad ogni secolo, ad ogni stagione”. Sono frasi desunte dalle “Prose della volgar lingua”, pubblicate nel 1525 dal grammatico e traduttore Pietro Bembo (1470 – 1547). Egli aveva in mente per l'Italia un progetto di unificazione linguistica e propose come lingua scritta il toscano trecentesco. Nel terzo libro del suo trattato redasse la grammatica del toscano letterario, fondato sull’uso di noti autori trecenteschi come il Petrarca, Boccaccio, ed altri noti scrittori toscani, ma non di Dante che linguisticamente lo considerava incostante perché utilizzava vocaboli “di livello alto e di livello basso”.
Il modello letterario e grammaticale proposto dal Bembo trovò consensi ed i  suoi consigli furono usati come fondamenta  dai grammatici per “codificare” la lingua italiana nei secoli.

Pietro Bembo si laureò all'Università di Padova e fece ulteriori studi alla corte di Ferrara, che allora i D'Este avevano trasformato in un importante centro letterario e musicale. Lì incontrò Ludovico Ariosto che di lui scrisse:
“ [...] Pietro /
Bembo, che 'l puro e dolce idioma nostro,
levato fuor del volgare uso tetro,
quale esser dee, ci ha col suo esempio mostro. “
(Ludovico Ariosto, “Orlando furioso”,
canto XLVI, 15, 1 - 4)

L’allora mancanza in Italia di unità politica e di un centro dominante (come lo fu Parigi per la lingua francese), non essendoci in quel tempo mobilità sociale e geografica nella maggioranza della popolazione italiana, l’unico modo per creare un legame, un punto di riferimento, era quello di proporre un modello linguistico e grammaticale, adatto soltanto all’uso scritto.

Ma chi era Bembo come uomo ? Un esteta rinascimentale che gradiva far accompagnare le sue poesie da fanciulle che suonavano il liuto. Fu pluralista e mutevole nell’amore. Nel maggio del 1500 fu coinvolto dalla relazione con Maria Savorgnan, che lo indusse  in rapide gite a Ferrara, dove la donna si era da Venezia trasferita nel febbraio 1501. Ma nel settembre dello stesso anno l’idilio giunse al tramonto, con l'inevitabile lascito di altri fuggevoli incontri e di chiusi e lenti rimpianti. Era stato un amore segreto, ma non senza confidenti e benevoli testimoni. Come nella finzione letteraria degli “Asolani”, dove in amichevole compagnia, negli intervalli di una festa di corte, tre donne e tre uomini discorrono dell'amore e insieme dei loro amori.

“Tanto più dolci saranno i frutti de’ nostri amori, quanto con maggior fatiche governando le radici loro e con più nostre lagrime rigandole, gli aremo nodriti e cresciuti”. (dalla lettera del Bembo alla Savorgnan, datata al 20 aprile 1501.

Dopo la Savorgnan, nel 1502 si consolò a Ferrara con Lucrezia Borgia, all’epoca moglie di Alfonso d’Este, con la quale ebbe una relazione.

A Roma il pontefice Leone X scelse Pietro Bembo come suo segretario e in tale ruolo il dotto veneziano protesse molti letterati ed eruditi presenti nella capitale.
Dopo la morte del pontefice nel 1521, si trasferì a Padova, dove abitava la sua amante, Faustina Morosini della Torre,  dalla quale ebbe tre figli.

Nel 1529 ritornò a Venezia (città dove era nato) con l'incarico di storiografo della Repubblica di Venezia e bibliotecario della Biblioteca Marciana.
 
Nel 1539 papa Paolo III lo nominò cardinale  e lo fece tornare a Roma.  Nei quattro anni successivi fu eletto vescovo di Gubbio e poi di Bergamo.

Morì a Roma, all'età di 76 anni, il 18 gennaio 1547 e fu sepolto nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva; la sua lastra tombale è collocata sul pavimento, dietro l'altare maggiore. Invece a Padova, nella basilica antoniana c’è il cenotafio del Bembo, realizzato nel 1548-1549.
« Ultima modifica: Settembre 20, 2015, 00:51:31 da dottorstranamore »

Doxa

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Re:Pietro Bembo e la lingua italiana
« Risposta #1 il: Settembre 19, 2015, 05:26:26 »

(reliquiario con la ciocca di capelli di Lucrezia Borgia)

A Milano, nella Pinacoteca Ambrosiana, è custodita dal 1685 una ciocca di capelli biondi di Lucrezia Borgia (1480 – 1519) e 9 lettere che lei scrisse all’amato Pietro Bembo: sette lettere sono scritte in lingua italiana e due in lingua spagnola. La loro relazione cominciò nel mese di giugno del 1503 con l’arrivo del Bembo a Ferrara e l’invio alla duchessa dei suoi dialoghi sull’amore contenuti in tre libri, raccolti nel titolo “Gli Asolani”, perché ambientati ad Asolo, nella corte di Caterina Cornaro.

Il rapporto amoroso tra il Bembo e la Borgia si svolse nei due anni successivi, fino al 1505. 
Pietro Bembo in una lettera a Lucrezia scrisse fra l’altro:   “A voi bascio ora quella mano col cuore, che fra poco verrò a basciare con quella bocca che ha in sé il vostro bel nome sempre”.

Nel XIX secolo la “reliquia” tricologica di Lucrezia fu motivo di richiamo per letterati e poeti della corrente del Romanticismo.
 
“Sono i capelli più biondi che si possano immaginare e che mai ho visti di così biondi”, scrisse il poeta  inglese George Byron a proposito della ciocca di capelli di Lucrezia Borgia, che vide a Milano quando, ventottenne, vi giunse nell' ottobre del 1816. All' epoca i capelli erano chiusi in un cofanetto di vetro conservato assieme alla corrispondenza amorosa intrattenuta dalla figlia del papa Alessandro VI, Rodrigo Borgia, con Pietro Bembo. Tre settimane dopo, da Verona, Byron scrisse  ancora all' amico John Murray per dirgli che era riuscito a corrompere il custode dell' Ambrosiana e a farsi dare uno di quei capelli.
L’entusiasmo di Byron si può forse spiegare con l’affinità (?) tra la leggenda di Lucrezia, presunta amante del padre e del fratello, e la vita di Byron, accusato di una relazione incestuosa con la sorellastra Augusta Leigh, accusa che costò al poeta l' allontanamento dall' Inghilterra.

Nel 1845  questa ciocca di capelli suscitò interesse anche allo scrittore Gustave Flaubert, l' autore di un’altra storia d’amore “scandalosa”:  “Madame Bovary”;  e dieci anni dopo fu ammirata  dai fratelli Edmond et Jules de Goncourt.

Nel 1926 giunse a Milano Gabriele d'Annunzio, pure  lui volle vedere quel reliquiario ed ebbe una forte emozione. Ispirato dall'entusiasmo, il vate promise che avrebbe regalato all'Ambrosiana un astuccio per racchiudervi la celebre ciocca. Ma non mantenne la promessa e così, nel 1928, la direzione di questo museo decise di far costruire un espositore adeguato alla ciocca. Fu incaricato lo scultore e gioielliere Alfredo Ravasco, molto noto nella Milano degli anni 30. Egli  realizzò l'attuale teca, alta trenta centimetri, sorretta da quattro arpie in argento dorato con perle nei seni e, appesi a una catenella di perle, due scudi ovati con l'insegna araldica dei Borgia, un toro sul recto, mentre sul verso si vede l'aquila con le ali spiegate degli Este, la casata dell'ultimo marito della sfortunata bionda che morì per un aborto all’età di 39 anni.


Bartolomeo Veneziano: ritratto di Lucrezia Borgia (1510 circa).
( Nîmes, Musée des Beaux-Arts)


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Re:Pietro Bembo e la lingua italiana
« Risposta #2 il: Settembre 19, 2015, 07:56:06 »
Lucrezia fu una grande donna, "chiacchierata" ingiustamente. Certo che una ciocca di capelli tanto ammirata, rende viva la sua presenza! e si spera che alla fine le venga resa giustizia.

Doxa

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Re:Pietro Bembo
« Risposta #3 il: Settembre 20, 2015, 01:23:28 »
Alcuni anni prima di conoscere Lucrezia Borgia a Ferrara,  Pietro Bembo si recò in questa città con il padre e vi rimase dal 1497 al 1499  alla corte di Ercole I, duca d’Este, dove conobbe illustri letterati, fra i quali Baldassar Castiglione e Ludovico Ariosto. Fece amicizia con Giuliano de’ Medici (terzogenito di Lorenzo il Magnifico) che nel 1513 divenne papa col nome di Leone X e volle Pietro Bembo e Jacopo Sadoleto come segretari ai “brevi”.

Il “Segretariato per i brevi ai principi e per le lettere latine” era un ufficio della Curia romana, composto da due sotto-sezioni, il Segretariato per i brevi ai principi e il Segretariato per le lettere latine, entrambe incaricate della redazione di documenti pontifici. Le loro funzioni erano distinte e svolte in conformità alle istruzioni emanate dal Papa.

Il Bembo aveva 43 anni, quando Leone X gli affidò questo incarico, col quale riuscì a farsi stimare dalla corte pontificia e dal papa, che gli accrebbe  l'entrata di beni ecclesiastici fino a tre mila fiorini d'oro. Bembo  lavorò in quell'ufficio fino al 1521, anno della morte di Leone X,  poi tornò nel Veneto, concludendo un periodo di rapporti artistici e culturali con Raffaello Sanzio, Michelangelo Buonarroti ed altri.

Decise di dedicarsi ai suoi studi, convivendo more uxorio con Faustina Morosina della Torre, dalla quale ebbe tre figli: Lucilio, che nacque nel 1523 e morì nel 1532, all’età di 9 anni; Torquato nacque nel 1525   e da adulto divenne sacerdote; Elena nacque nel 1528.
 
Nel 1525 il Bembo si trasferì nella villa di famiglia nella campagna padovana, dove “Leggo, scrivo quant’io voglio, cavalco, cammino, passeggio molto spesso per entro un boschetto che io ho a capo dell’orto”. Nel 1527 acquistò una casa in borgo Altinate a Padova e vi trasferì la propria collezione di libri, monete, oggetti d’arte. La sua dimora divenne lo scrigno di memorie familiari, luogo di studio e lavoro; si fece la pinacoteca privata con le opere degli artisti che aveva conosciuto, frequentato, ammirato.
 
Il 6 agosto del 1535 morì la Morosina, presenza discreta e amorosa per il Bembo.

Il 12 ottobre del 1534 venne eletto papa il cardinale Alessandro Farnese, che prese il nome di Paolo III. Questo pontefice il  23 marzo 1539 nominò cardinale Pietro Bembo, che in quel periodo era a Venezia.

Fu probabilmente lo stesso Pietro Bembo a commissionare  a Tiziano Vecellio il ritratto a mezzo busto in occasione dell'ottenimento del cardinalato, prima del suo trasferimento a Roma nell'ottobre di quell'anno.


Tiziano Vecellio: ritratto del cardinale Pietro Bembo (1539)
(Washington, National Gallery of Art)

Il cardinale è raffigurato a mezza figura su uno sfondo scuro, col busto ruotato a destra e il volto a sinistra. Indossa la veste da prelato, con la berretta e la mantella rossa sulla tunica bianca. Il braccio destro, parallelo all'orlo della mantella,  è proteso in avanti, la mano è semi aperta come se stesse disputando un argomento con qualcuno. La fronte è alta, la barba lunga e bianca, il naso sottile e aquilino, le guance scavate, la bocca serrata, gli occhi scuri, lo sguardo penetrante.

Quando nel 1939 si trasferì a Roma, Pietro Bembo andò ad abitare nella casa di un suo amico, il noto monsignor Giovanni Della Casa, quello del "Galateo", che fu nunzio apostolico presso la Serenissima Repubblica di Venezia ed introdusse il tribunale dell'Inquisizione in Veneto.

"Avendo (il Della Casa) una assai nobile abitazione in Roma, di cui pagava scudi trecento l'anno d'affitto, la volle cortesemente lasciare al Bembo con molti fornimenti, ed un bellissimo camerino acconcio de' suoi panni molto ricchi, con un letto di velluto, ed alquante statue antiche, ed altre belle pitture, senza ch'egli ne pagasse un picciolo, quando il Casa avea infiniti, che l'averebbon tolta con pagargli l'affitto di molta grazia. Nè contento di quello gli lasciò ancora una bellissima vigna poco fuori della più bella porta di Roma (Porta Appia, all’inizio della via Appia Antica. La monumentale “porta” è  più conosciuta come Porta San Sebastiano, nelle mura Aureliane, n.d.r.) dove il Cardinale solea andar qualche volta a diporto".

Il 29 luglio 1541 Pietro Bembo venne nominato vescovo di Gubbio.
 
Con il passare del tempo, le sue preoccupazioni di genitore  per l'avvenire dei figli si fecero maggiori. All'educazione e sistemazione del figlio illegittimo Torquato, avviato alla carriera ecclesiastica, aveva provveduto. Doveva provvedere alla figlia, Elena, che nell’estate del 1543 sposò il gentiluomo veneziano Pietro Gradenigo e le dette una dote ricchissima che assorbiva gran parte del suo patrimonio. Per questo nell'estate del 1543, il Bembo, che aveva seguito Paolo III  per l’incontro a Busseto (prov. di Parma) con l’imperatore Carlo V, ottenne di andare, per l'ultima volta, a Venezia e Padova, e vi si trattenne fino al mese di ottobre. Dopo di che ottenne, a compenso dei sacrifici finanziari sopportati per le nozze della figlia, di stabilirsi nella sua diocesi di Gubbio, sede meno dispendiosa di Roma. Così nel novembre si ritrovò a vivere in quella terra umbra, inclusa nel ducato di Urbino, dove tanti anni prima aveva trovato ospitalità e ispirazione agli studi.

L’anno seguente, il 18 Febbraio del 1544, gli fu assegnato il ricco vescovado di Bergamo, che in quel momento gli era utile per poter pagare i debiti contratti per il matrimonio della figlia; ma a Bergamo non vi si poté recare per motivi di salute ed anche perché papa Paolo III preferiva averlo a Roma per consigli. E nell'urbe Pietro Bembo morì il 20 gennaio 1547.


« Ultima modifica: Settembre 20, 2015, 21:10:30 da dottorstranamore »

Birik

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Re:Pietro Bembo e la lingua italiana
« Risposta #4 il: Settembre 20, 2015, 06:45:41 »
Trovo molto interessante l'argomento. Non capisco però il perché del copia-incolla. Una pagina letteraria don dovrebbe prediligere scritti di proprio pugno?

Birik

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Re:Pietro Bembo e la lingua italiana
« Risposta #5 il: Settembre 20, 2015, 11:12:22 »
Vorrei però aggiungere che la lingua Italiana, di certo promossa dal Bembo nella sua accezione Toscana, nacque in Sicilia, grazie all'imperatore poeta e forse l'uomo più grande di tutti i tempi, Federico II. Si ha conoscenza di un documento, un atto notarile in Italiano volgare, redatto a Capua poco prima dell'anno mille, ma i primi scritti sono da attribuire a Giacomo da Lentini e Cielo D'Alcamo e segnano la rivolta dei poeti siciliani contro il latino ecclesiastico. I Toscani ne furono gli eredi e Dante, che pose Federico all'inferno, si autoproclamò padre della lingua. Dobbiamo dunque al sommo poeta l'emarginazione della Sicilia come fulcro di linguaggio e poesia. Forse perché i Siciliani non vedevano le donne come Madonne?
« Ultima modifica: Settembre 20, 2015, 11:19:29 da Birik »

Doxa

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Re:Pietro Bembo e la lingua italiana
« Risposta #6 il: Settembre 20, 2015, 15:57:30 »
Birik ha scritto:
Citazione
Trovo molto interessante l'argomento. Non capisco però il perché del copia-incolla. Una pagina letteraria don dovrebbe prediligere scritti di proprio pugno?

Ciao Birik, ho inserito il topic riguardante Pietro Bembo nella sezione “Letteratura che passione” , perché nel sottotitolo c’è scritto: “ Narrativa, poesia, saggistica italiana e straniera. Qui puoi parlare dei tuoi libri e autori preferiti”. Ed io mi sto dilettando con la biografia di Pietro Bembo. Non sono un suo cultore, non ho notizie “originali” su di lui, perciò “attingo”  a chi ha approfondito gli studi su questo personaggio.

Ma anche i giornalisti non sono “originali”. Per pigrizia mentale ed ignoranza molti ripetono ciò che uno ha detto in modo sbagliato, mirando solo all’effetto comunicativo. Vuoi un esempio ? Ti faccio riflettere sulla frase “bomba d’acqua” che nelle scorse settimane molti giornalisti radiotelevisivi hanno ripetuto anziché usare  la frase “forte temporale” oppure “ nubifragio”.

Comunque i miei scritti possono essere spostati o cancellati dai moderatori come e quando vogliono, lo sanno.

Nei giorni scorsi ho letto un tuo post riguardante l’amore, tema a me congeniale, ed ho aggiunto un mio post al tuo topic. Se vuoi possiamo riprendere l’argomento e dilungarci sull’amare e sull’amore. Oppure  possiamo dialogare sull’attrazione fisica e l’estetica corporea.   

Birik ma anche tu sei una "Rosa fresca aulentis(s)ima ch'apari inver la state " ?

Rosa fresca aulentissima” è il titolo  dell’unico componimento poetico a noi pervenuto dal te citato Cielo o Ciullo d’Alcamo (bella cittadina in provincia di Trapani).  E’ una poesia  giullaresca destinata alla rappresentazione scenica nel XIII secolo. Il dialogo è tra una ragazza e un giullare sfacciato che le offre con enfasi il suo amore, a tratti con parole galanti e a tratti con parole volgari. La ragazza dapprima rifiuta l’offerta d’amore ma alla fine l’accetta.

Non sono completamente d’accordo con te sulla storia della lingua italiana dei primordi. Ma se permetti preferisco ora soffermarmi  sull’aggettivo “aulentissima” usato dal tuo corregionale. Deriva da aulente, participio presente del verbo “aulire”, collegato al verbo latino “olere” (= avere odore gradevole), da cui olezzo.
 
Nella transizione dal latino al cosiddetto “italiano volgare” molti dei dittonghi latini in “au” furono modificati dai parlanti, inconsapevolmente trasformarono il dittongo “au”  nella “o”; ma lo zelo ipercorrettista reagì aprendo in “au” la “o” di “olere”, che invece non era stata modificata e nacque il verbo “aulire”, da cui “aulente”, participio presente ed aggettivo. Significa profumato, fragrante, come la rosa…, associata nel tempo a diversi simboli e significati.

Nella mitologia greca la rosa è associata al mito di Adone e Afrodite: la dea, innamorata del giovane cacciatore, nulla può fare per salvarlo dalla morte provocata dall'attacco di un cinghiale. Nel soccorrere l'amato, Afrodite si ferisce con dei rovi e il suo sangue fa sbocciare delle rose rosse. Zeus commosso dal dolore della dea, permette ad Adone di vivere quattro mesi nell'Ade, quattro nel mondo dei vivi, e altri quattro dove avrebbe preferito: per questo la rosa viene considerata simbolo dell'amore che vince la morte e anche di rinascita.

Nel linguaggio dei fiori la rosa, a seconda del colore, può simboleggiare l’amore passionale oppure la purezza e la verginità. 

La rosa rossa indica il desiderio, la passione, il rapporto sessuale; è il fiore di Venere.

La rosa bianca simboleggia la purezza virginale, la castità. 
 
Nell’iconografia cristiana la rosa simboleggia il paradiso.

Rosa mistica”  è uno degli attributi  a Maria nelle litanie; nel rosario c’è l’invocazione “Rosa Mistica, prega per noi”.:
“Rosa splendente di verginità, tutta olezzante dei profumi delle grazie”, la definì il teologo siriano Giovanni Damasceno.

Mi chiedi fra l’altro
Citazione
Forse perché i Siciliani non vedevano le donne come Madonne?
  Se Ciullo potesse parlare ci direbbe che…non “le vedevano come madonne ma come tentatrici. L’arte della seduzione femminile serve per scegliere il “maschio alfa”, dominante, le donne non sono luciferine. 

Birik

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Re:Pietro Bembo e la lingua italiana
« Risposta #7 il: Settembre 20, 2015, 16:23:25 »
Che piacere dialogare e apprendere. Mi soffermo sulla differenza di vedute tra Federico Stupor Mundi e Dante. Il primo un anticlericale che dialogava col Saladino in tempi di Crociate, il secondo un guelfo legato al Papa a prescindere, anche se forse dopo l'esilio.....diventò il ghibellin fuggiasco.. Ovvio che la poesia siciliana sia più spontanea del Dolce Stil Novo che assecondava i dogmi della Chiesa specie nella visione angelicata della donna. La mia simpatia va da sempre a chi si oppose al potere temporale della Chiesa e in questo caso ad un uomo che fu anche poeta, che parlava sette lingue e che seppe riunire intorno a se uomini di lettere in grado di forgiare una lingua che prescindesse dal Latino.