UN'ESTATE AL MARE
La cabina secondo Gigi Proietti
È stata un classico della vita da spiaggia, insieme al cocomero seppellito nella sabbia e ai primi bikini.
Cabina? La mia, tanto per cominciare, è la “cabbina”, con due b. Per Bossi invece è la “gabina” con la g. Adesso è un po’ che non la frequento… Non perché al mare io mi spogli en plein air, anche se un’esperienza nudista c’è nel mio passato, ma ve la racconto dopo. Il fatto è che da più di trent’anni vado a Ponza, giro col gommone (se potrà di’? non è che mi fanno gli accertamenti fiscali?) e non faccio vita da spiaggia, come da ragazzino, a Fregene. Negli anni Cinquanta se c’avevi la cabina personale, in affitto per la stagione, voleva dire che eri benestante. Noi andavamo nel casotto: cabina collettiva, dove si affittava il chiodo a cui appendere i vestiti. E nel film Il Casotto, Sergio Citti ha descritto con poesia l’umanità che ricordo io, i “fagottari”, quelli che si portavano il pranzo appresso: cotolette col sugo, sfilatini ripieni di frittata... Per mangiare si cercavano le trattorie all’aperto che esponevano il cartello “Accettanzi cibbi propri”. Compravi solo da bere e aprivi il fagotto.
La cabina e il casotto erano un invito al voyeurismo. E il “buco”, fatto con una certa astuzia nei nodi del legno, è un classico della mia infanzia come il cocomero seppellito nella sabbia per tenerlo al fresco (quante volte capitava che non ti ricordavi dov’era...). Il buco era una prospettiva. Reale, non metaforica, nel senso che mica potevi cambiare l’inquadratura se il “soggetto” si spostava… Prospettiva unica. Se andava male dovevi aspettare l’inquilina successiva e sperare. Nella cabina si entrava vestiti e si usciva in costume. Allora castigatissimo. Così quando dalle cabine iniziarono a uscire le ragazze con i primi bikini non era possibile fingere indifferenza e gli occhi si muovevano qua e là come un partita di tennis seguendo l’andatura delle miss.
Anche il costume da bagno, in fondo, è una prospettiva: mi è capitato di frequentare persone sulla spiaggia, ridere, scherzare… e poi in città non le riconoscevo. Erano vestite. Perché la nudità al mare non fa effetto. Ma se la scorgi dal buco di una cabina...
E qui entra in gioco la mia esperienza da nudista. Molti anni fa ero in una vacanza in un villaggio in Costa d’Avorio. Sulla spiaggia erano tutti nudi. Non volevo fare la figura del bacchettone e mi spogliai pure io, pur con un certo imbarazzo. Che c’entra la cabina? C’entra. Perché un giorno, tornando dalla spiaggia, dove erano tutti nudi, intravidi dalla finestra di un bungalow una donna che si spogliava. Una voce da dentro, mi disse “sbircia”, cosa che ovviamente non feci. Ma per una frazione di secondo era scattata la prospettiva del buco nella cabina. Il richiamo delle innocenti trasgressioni di quando ero ragazzino.
Di queste trasgressioni la cabina è il set ideale: il piccolo spazio per un incontro amoroso fugace (come in ascensore, col vantaggio che la cabina sta ferma). Luogo di confidenze sussurrate. O di solitudini. Se ne possono costruire di sceneggiature… Non come quelle del cinepanettone, però. Qualcosa di più antropologico, che tratteggi l’umanità balneare. Come Casotto. Perché il popolo dei fagottari non è scomparso. Si è arricchito: dal casotto è passato alla cabina, dalla cabina allo chalet e poi allo yacht “a nolo”. A Ponza, li vedo. C’è la stessa gente di allora. Ma senza quella poesia.
(da "Io Donna", settimanale del Corriere della Sera,17 agosto 2012)