Soffiò sulla candela con tutto il fiato che aveva in corpo fino a stare male. Non era la candela che voleva spegnere ma la sua vita, ora che non vi era alcuna luce all’orizzonte. Fu subito buio nella sua tana dove giaceva come un’animale ferito gravemente che non aspetta che lei, la morte. Tutti avevano paura della morte, il solo evocarla provocava incubi tormentando le notti del malcapitato. Vincenzo pronunciava tale nome con assoluto rispetto, ammirazione, attesa. In un mondo fatto di ingiustizie solo lei era assoluta giustizia, uguaglianza. Colpiva tutti senza guardare in faccia a nessuno: padroni e servi, belli e brutti, giovani e vecchi, sani e malati, o poveri invalidi come lui. In quella notte in cui il buio non era mai stato così spesso e impenetrabile, la morte era la sua unica alleata, complice, speranza di qualcosa per cui valesse la pena di vivere, o di morire.
Quella sarebbe stata la notte più lunga della sua vita, il suo calvario senza resurrezione, lo sapeva benissimo. Quello che non sapeva ancora era cosa sarebbe stato di lui il giorno dopo. Infiniti pensieri correvano liberi nella sua mente e nessuno li avrebbe potuto fermare per catturali e buttarli via lontano. Parole e urli lo assalirono flagellando i suoi timpani. A nulla valse tapparsi le orecchie con le mani fino a sentire dolore. Quelle voci erano dentro di lui e nulla li avrebbe sconfitti. Udiva gli altri ragazzi che ridevano sguaiatamente mentre con forza bruta gli toglievano la corazza, l’avaro che gridava con la fascina incendiata sulle spalle, Guarnaccia che gli parlava del suo sogno non ancora sognato, ripresosi dall’affanno della corsa.
"Professore, il sogno dei signori”. Queste parole tagliavano l’aria e le sue vene ormai esangui. Un povero disgraziato come lui deve tenere lo sguardo basso, verso terra o più giù se possibile, non può guardare il cielo. Vedeva sua madre, per la prima volta non al suo fianco. Le sue cicatrici sul volto e sul corpo che sacrifici e umiliazioni avevano deturpato facendone una sindone vivente, che nessuno mai avrebbe ricordato con un cero o una semplice preghiera.
No. Non voleva fargli del male, troncargli anche le ali dopo che la natura gli aveva seccato un braccio. Come sempre voleva proteggerlo. Una forte delusione per un sogno svanito uccide più di un’ esistenza misera ma sicura come una condanna a vita. Sulle delusioni che la vita non le aveva certo lesinato, era sì lei un professore, senza paragoni con alcuno. Non poteva che essere questo il vero tormento della sua amata crocifissa. Doveva essere così.
Il suo amico, l’unico che lo aveva conosciuto nudo, a cui aveva confessato l’inconfessabile, era diverso dagli altri. Era il solo che non facesse di tutto una crudele competizione, sia che si trattasse di in un semplice rito d’iniziazione, stupido quanto necessario per dimostrare di esistere su questa terra indifferente, sia per qualsiasi banale gioco o divertimento. Invidia, crudeltà, piacere immenso per l’errore dell’altro erano sentimenti comuni a tutti gli altri. Non essere così era stato per Guarnaccia un buon motivo per essere isolato, sbeffeggiato, ritenuto un fessacchiotto o peggio. Ma lui non ne soffriva, era così e basta.
Vincenzo invece aveva scelto la strada della superbia, arroganza, antipatica freddezza, qualche volta anche crudeltà, nei confronti di chicchessia. Tutto gli andava bene, meno che la loro compassione. Il solo pensare che qualche nomignolo da loro usato alle sue spalle lo identificasse con il suo braccio morto era insopportabile. Niente lo avrebbe oltraggiato di più. Bastardo, crudele, perfino pazzo erano dolci suoni al confronto. Erano una bella coppia non c’è che dire!
Quando le urla dentro di lui cessarono, la sua mente, scena dopo scena, gli presentava il conto di una breve vita, che gli era sembrata fin troppo lunga.
Tra pianti disperati di chi non spera, sacrifici che non portavano ad alcuna redenzione sotto quella cappa scura che opprimeva il cielo, avrebbe salvato pochi ritagli di vita. Vedeva i suoi fogli immacolati che con pochi colori prendevano forma, sostanza, vita. Ogni sera, come un carbonaro che custodisce le segrete lettere rivoluzionarie dei suoi compagni, tirava fuori i suoi fogli dall’indegno nascondiglio e con quella misera luce li guardava come se fosse la prima volta e forse anche l’ultima. La strana sensazione che in quelle opere mancava qualcosa non turbava più di tanto quel momento di magia che solo un artista può vivere. E lui era un artista, magari allo stato embrionale, ma pur sempre artista. Quella sera per la prima volta i suoi tesori erano rimasti nella polvere, orfani di autore, senza godere di quello scampolo di vita che una luce fioca donava loro.
Aveva preso la cassetta con colori e fogli, come un prete prende il calice delle ostie dal tabernacolo la domenica, quando il Guarnaccia, unico adepto, era stato ammesso a tale comunione. Li aveva guardati lentamente, senza fretta. Nessuno dei due poteva esprimere giudizi tecnici, non ne avevano, ma le sue creature in quelle mani amiche, ma pur sempre estranee, tenevano Vincenzo in apprensione, come una puerpera dopo il lungo travaglio quando stacca per la prima volta il suo unico figlio dal suo seno gonfio di vita.
Non disse niente, neppure un banale commento, né bello né brutto.
Ed eccolo lì, felice come poche volte lo aveva visto, dare sostanza al suo sogno di diventare un vero pittore. Un professore d’arte, così aveva detto mentre i suo occhi schizzavano fuori dalle orbite. Era la prova che le sue opere nate in semioscurità e clandestinità gli erano certamente piaciute. Meritava di fare progressi, in un apposita scuola , non importava se era una scuola per signori che per definizione lo espelleva prima ancora di iscriversi.
Le lacrime scendevano e nessun argine le avrebbe mai contenute e quella volta Vincenzo non fece nulla per fermale. Erano l’unica cosa libera che possedeva. L’indomani con pochi pezzi di legno e alcuni chiodi avrebbe costruito una piccola cassa che del ferro filato arrugginito raccattato da qualche parte avrebbe imprigionato per sempre . All’interno il suo tesoro e alcune bellissime pietre bianche che amava accarezzare quando al lavatoio ascoltava i racconti delle donne. Queste storie, la cui veridicità non aveva alcuna importanza, spesso gli avevano permesso di oltrepassare con la fantasia gli angusti confini di quella terra senza confini, se si escludevano quelli posti dall’aridità degli uomini che indegnamente la calpestavano. Era la sola cosa da fare, lo avrebbe fatto e il suo tormento sarebbe terminato, così sentenziò esausto. Il mare che custodisce immensi tesori di grandi uomini avrebbe accolto con commiserazione, solo a lui concessa, il piccolo tesoro dell’ultima artista o comunque dell’ultimo uomo.
Ma la notte era lunga, forse non era ancora cominciata.
Suoni e immagini lentamente si dissolvevano come aveva visto fare a piccole graziose nuvole dai contorni sfumati nel cielo di giugno. Il tutto avveniva con una progressione quasi impercettibile, agli altri.
Nella notte una luce improvvisamente illuminò il suo letto, le pareti, le poche misere cose lì da sempre. Non ricordava una tale luce, neanche quando il sole d’estate raggiungeva la sua massima altezza e splendore. Anche l’unica stanza antistante non aveva mai goduto di una sola parte di tutta quella luce. Gli incubi ad occhi aperti si erano ritirati in buon ordine e un sogno, non poteva essere altrimenti, aveva preso il sopravvento.
La luce aveva sconfitto il buio, avrebbe detto tuonante don Rosario cercando l’eco nell’immensa cattedrale in una delle sue prediche migliore. Lo avrebbe detto durante la messa delle dodici, quella per i signori, e solo quelli, ricoperti di ori, stoffe pregiate, merletti inamidati e cappellini con veli scuri nuovi sopra la stessa anima, quella di sempre.
Ad un tratto Vincenzo si stropicciò gli occhi più volte, sebbene sapesse benissimo che stava sognando, non potendo credere a quello che vedeva per la prima volta. Le pareti, senza più crepe e macchie di umidità, su cui aveva fantasticato nella sua prima infanzia, erano colorate di un bianco che nessuna tavolozza di pittore avrebbe mai potuto solo sperare di possedere, ospitava tutti i suoi fogli, quasi irriconoscibili rivestiti di cornici intarsiate in legni preziosissimi. Ma non era solo quello che rendeva diverse le sue creature. Ora capiva finalmente cosa mancava ai suoi personaggi, ai suoi paesaggi, ai cieli tersi attraversati dal sole e alle notti stellate con una luna grande come non aveva mai visto.
Era la luce, non ve n’era stata mai tanta e di una luminosità così accecante. I colori cupi erano andati via e al loro posto uno gioiosa esibizione di linfa vitale invadeva tutto esplodendo in ogni cosa. Anche le cicatrici della madre non erano poi così profonde, forse non si vedevano più perché guarite da quella luce miracolosa. Tutto era rinato come nel quadro raffigurante il Cristo glorioso risorto che ogni anno veniva portato festante in processione.
Ora che Vincenzo e la sua arte liberata avevano conosciuto la luce non poteva tornare più indietro. Avrebbe vissuto solo in quella luce, per quella luce, ad ogni costo. Contro tutto e tutti, perfino contro se stesso, se necessario. Vivere diversamente sarebbe stato solo sopravvivenza, una lenta e inutile agonia .
La notte era alle spalle e un uomo nuovo era nato.