Stanca e furiosa attendo di partire. Branchi di passeggeri affannati e soddisfatti saccheggiano negozi di dolciumi e souvenirs. Nella sala imbarchi, il vicino ascolta orribile musica in cuffia che costringe anche me a subire per l’alto volume, mentre picchietta soddisfatto sul pavimento il piede calzato di infradito d’ordinanza.
Intanto dietro di me un ventenne imbecille parla incessantemente al telefono, con un tono di voce che supera il frastuono della sala, impedendo al suo sfortunato interlocutore di inserirsi nel suo inutile monologo. L’altoparlante gracchia istruzioni incomprensibili e io sogno un mondo silenzioso lontano da me. Una sala enorme e affollata di gente che fa esattamente quello che vuole: ride, parla incessantemente, urla, si sposta inutilmente da un punto all’altro.
Guardo mamme e papà pazienti che tengono occupati bambini irrequieti che credono di conoscere o, forse, conoscono; e li immagino persi, come me, in questo infinito scoramento per questo figlio così lontanamente vicino.
Penso a lui con doloroso stupore.
Finalmente a bordo, ancora a terra, un moto brevissimo e repentino dell’anima mi ricorda l’affetto che provo per questo figlio difficile.
Lo scaccio subito, cercando tutti i suoi errori e le mie sofferenze; lo anniento, perché ricordare che qualcosa uscito da me è diventato così “altro da me”, uccide ogni residuo tentativo di resistere alla fatica di vivere così. La pena di sopportare questo immenso lago ghiacciato che è diventato il mio cuore, non mi lascia un momento di tregua.
Parto. E un diluvio infinito di lacrime, finalmente, dopo settimane, mi imbarazza e mi devasta.