La maturità
Dalla terza media alla maturità studiai dai padri gesuiti. Era ritenuto il miglior collegio maschile della città e uno dei migliori o addirittura il migliore della regione. La maggior parte degli alunni erano interni, solo una piccola parte erano esterni. Io ero seminterno, cioè entravo la mattina ed uscivo la sera, quando avevo completato di fare tutti i compiti, che a quei tempi non erano pochi. Cinque ore di lezioni al giorno e tanti compiti da fare. Dovevo studiare e molto, ma non mi dispiaceva. Non ero il primo della classe, ma ero nel gruppo di testa.
Quando frequentavo la terza media il Preside, un padre gesuita molto rigoroso e preciso, ci consegnò la pagella del primo trimestre, non era bella, ma neppure brutta, c'erano alcuni cinque e diversi sei. Gli esterni e i seminterni dovevamo portarla a casa e restituirla firmata dai genitori. Io, dopo averla fatta firmare a mio padre la conservai e non la trovai più. Il preside P. Salvatore, me la chiese e gli risposi che non la trovavo. Mi disse “cercala e cercala bene”. Non riuscivo a trovarla. Me la chiese una seconda volta inutilmente. Quando me la chiese la terza volta e gli risposi che non riuscivo a trovarla mi mise in castigo in mezzo al corridoio del primo piano assieme a quelli che non avevano saputo la lezione.
In collegio c'era l'abitudine che quando un professore interrogava un ragazzo e questo non sapeva la lezione faceva un rapportino al preside, il quale durante la ricreazione lo tratteneva in castigo in mezzo al corridoio a studiare la lezione finché non l'avesse imparata e non glie l'avesse ripetuta bene. Anche per gli alunni indisciplinati c'era una punizione simile. Il rapportino veniva fatto al ministro il quale si occupava della disciplina e gli alunni venivano puniti restando in piedi in mezzo al corridoio davanti al suo ufficio al secondo piano.
Dunque, in quella occasione, durante il periodo della ricreazione, io fui messo in castigo assieme agli alunni che non avevano saputo la lezione e per non sprecare il tempo inutilmente mi presi un libro e mi misi a studiare. Il professore dell'altra sezione della terza media, che era in cura da mio padre, corse subito da lui studio e glie lo disse. La sera, quando giunsi a casa, mio padre mi disse “oggi non hai saputo la lezione” “No – risposi – ero in castigo con quelli che non hanno saputo la lezione, ma il motivo è il fatto che ho perso la pagella che tu hai firmato”. Mio padre non aggiunse nulla. L'indomani, appena arrivato a scuola, il Preside mi bloccò e mi chiese “hai trovato la pagella? – ed alla mia risposta negativa aggiunse – anche oggi in castigo”. La scena si ripetè il secondo giorno ed anche quel giorno il professore lo andò a raccontare a mio padre. Tornato a casa identica domanda di mio padre e identica risposta mia. Il terzo giorno si ripetè la scena per la terza volta e nuovamente il professore andò a raccontarlo a mio padre.
A quel punto mio padre telefonò al Rettore che era il capo del collegio, di cui era molto amico, e gli chiese di sapere i motivi per cui suo figlio era stato in castigo per tre giorni consecutivi. Il rettore chiamò il preside e lo passò al telefono a mio padre. Non si conoscevano e mio padre chiese di essere informato sul motivo per cui suo figlio era stato punito per tre giorni consecutivi. Il preside glie lo spiegò e mio padre potè accertare che suo figlio non gli aveva mentito. Dopo avere ascoltato gli chiese “lei, preside, ritiene che se mio figlio ha perso la pagella la ritroverà?” “non lo so” rispose il preside. “E quindi se non la trova me lo tiene in castigo fino alla fine dell'anno? Non credo sia giusto! Gli dia un castigo severo. Lo metta anche a testa in giù e piedi in aria, ma una volta sola, non tutti i giorni fino all'infinito!”.
La sera quando arrivai a casa mio padre non mi disse niente. L'indomani mi andai a mettere automaticamente in castigo da solo. Venne subito il preside e mi mandò a ricreazione. La sera, quando tornai a casa lo raccontai a mio padre il quale fece solo un cenno di assenso con la testa, come per dire va bene. Solo dopo molto tempo i scoprii tutto quello che era successo. Poi mio padre e il preside divennero amici ed anche io divenni amico di quel preside. Fu lui a sposarmi e a battezzare tutti i miei figli.
Come si evince da quello che ho raccontato in collegio eravamo seguiti con molta attenzione e scrupolo e noi ragazzi studiavamo e ci impegnavamo. Comunque voglio precisare che, anche negli anni a seguire, non sono mai stato messo in castigo per non aver saputo la lezione o per essere stato indisciplinato. Quando c'era qualche ragazzo che non riusciva nello studio oppure era particolarmente indisciplinato il preside chiamava i genitori e diceva chiaramente loro che suo figlio meritava di essere bocciato (a quei tempi si bocciava anche per un voto basso in condotta) a meno che non lo ritirava dalla scuola.
Avevamo anche dei buoni professori, tranne qualche rara eccezione, una di queste eccezioni fu il professore di francese alla scuola media e al ginnasio e il professore di matematica al liceo. In quarto ginnasio dovevamo tradurre come classico “Le lepreux de la cité d'Aoste” di Moliere. Dovevamo studiarlo e tradurlo dal francese in italiano prima oralmente e poi trascrivere la traduzione sul quaderno. Scrivere quattro o cinque pagine di classico nel quaderno era una palla! La traduzione orale la preparavo regolarmente, ma impiegare tanto tempo per trascriverla mi dava fastidio per cui sul quaderno facevo il riassunto, e malgrado tutte le volte che c'era lezione il professore controllava la trascrizione a tutta la classe e firmava tutti i quaderni non si è mai accorto che il mio era solo un riassunto. Ma nelle interrogazioni andavo bene e il tempo risparmiato lo occupavo a leggere e studiare altre cose che mi piacevano di più.
Al ginnasio ho avuto un ottimo insegnante di italiano. Era un padre gesuita che poi andò a dirigere la rivista nazionale dei padri gesuiti. Curava tantissimo la forma e quando ci correggeva i temi si impegnava tantissimo e lo faceva non solo con alta professionalità, ma anche con tanto impegno e chiarezza e si accertava che noi avessimo capito. Io ritengo di avere imparato tantissimo da lui nella mia maniera di scrivere ed anche di comunicare.
Al ginnasio il preside della pagella fu anche il mio insegnante di latino e greco. Una volta, lo ricordo ancora, tra le frasi di latino da tradurre dal libro c'era anche questa “Maior sum, ad maiora natus, quam ut sim mancipium mei inimicus” che io tradussi così “sono troppo grande, nato per cose troppo grandi, per essere servo del mio nemico” E lui con la penna rossa scrisse “modesto, vero?”. Beh, forse quella frase mi è rimasta impressa e ritengo che sia il mio motto.
Quando siamo entrati al liceo eravamo tutti terrorizzati del professore di italiano. Era un sacerdote (ma non era gesuita) molto colto. Era il direttore della biblioteca della città. Era anziano e parlava sempre lentamente scandendo le parole. Il primo giorno di scuola entrò, si sedette sulla cattedra e disse “scrivete” e dettò un tema. Noi tutti rabbrividimmo. Poi aggiunse “questo tema è stato assegnato agli esami di maturità (e specificò l'anno). Se non cominciate a prepararvi subito per gli esami di maturità non sarete in grado di superarli”. Poi ci spiegò che lui avrebbe assegnato un tema ogni due settimane che avrebbe ritirato di lunedì mattina. Ci raccomandò anche di non aspettare gli ultimi giorni per farlo, ma di iniziare il prima possibile e tutte le volte che avevamo un poco di tempo libero di andare a rileggerlo e rivederlo. Perché rileggendolo avremmo sempre trovato qualcosa da aggiustare o migliorare. ci disse che il compito di italiano doveva essere tutto un lavoro continuo di limatura e di perfezionamento.
Io ero molto preso d'impegno e ci tenevo a fare le cose bene, in particolare con l'italiano. In effetti il merito era anche dell'insegnante che avevo avuto i due anni precedenti. Fatto il primo tema grande fu la mia delusione quando notai che il voto era quattro. Anche nel secondo tema, malgrado ci avessi messo moltissimo impegno e moltissima attenzione, ebbi un voto scadente. Anche negli altri temi i voti oscillavano sempre attorno a quello iniziale. Ero cosciente che, malgrado il professore fosse molto rigoroso, il mio tema non meritasse quel voto. Ma parimenti ero consapevole di avere una pessima calligrafia per cui pensai che il cattivo voto potesse dipendere proprio da questo fatto. Allora, alzai l'ingegno, scrissi un tema con la macchina da scrivere e lo consegnai senza firma. Il giorno della correzione vidi che il professore arrivato al mio tema lo saltò e lo mise sotto gli altri (era chiaramente riconoscibile perché era battuto a macchina). Alla fine dopo aver corretto tutti i temi disse “qui c'è uno sventatello che si è dimenticato di firmare il compito”. Mi alzai e dissi “professore, posso vedere se è il mio?”. Andai alla cattedra, sapevo che quel compito era il mio, era l'unico battuto a macchina, ma ero curioso di vedere il voto. C'era un sei più! Il voto massimo che, a quei tempi veniva dato era sette e veniva dato solo eccezionalmente. Tornai a posto gongolando, dentro di me pensavo: ti ho fregato!
Al liceo avevamo anche un ottimo professore di latino e greco, anch'esso molto rigoroso (che poi nella vita ho incontrato nuovamente quando i miei figli andavano a scuola (forse ne parlerò in seguito). Una volta facevamo la traduzione dei classici greci: ci aveva assegnato dei versi sparsi di Saffo. Io, avevo a disposizione molti libri. Infatti, oltre a quelli miei, avevo quelli su cui aveva studiato mio padre, ed altri ancora me li aveva forniti una zia professoressa. Si trattava di libri di letteratura, italiana, latina e greca, anche classici e testi universitari di approfondimento. Per questo motivo spesso approfondivo le lezioni su questi testi. Tra i vari versi di Saffo (questa poetessa mi aveva sempre intrigato) c'era un verso che ricordo ancora a memoria (lo trascrivo in base alla pronunzia italiana) “espere, panta feres, feres oion, feres aiga, feres apu materi paida”. Quella volta su questo verso avevo fatto diversi approfondimenti anche su un testo universitario. Manco a farlo apposta il professore mi interrogò su questo verso. Ero gasato al massimo, perché ero sicuro di fare bella figura. Parlai a lungo e dissi che a mio parere la traduzione giusta era “espere-tramonto, tu porti tutto, riporti le pecore, riporti le greggi, ma porti via le fanciulle alle madri. “Dove hai trovato questa stupidaggine?” Chiese il professore. Citai il testo che era stato scritto da un letterato famoso. Ma non sapevo (l'ho saputo solo dopo) che questo studioso era ateo e per questo il suo libro era messo all'indice, cioè era proibito leggerlo. A quei tempi e nella scuola che frequentavo si teneva molto a queste formalità. Il professore mi mandò a posto e mi mise sei, anche se avevo risposto bene.
Un altro frammento di classico greco che mi è rimasto nella mente è di Alceo “otan pino ton oinon, eudusin ai merimnai, ti moi goon, ti moi ponon, ti moi melei merimnon?”. Alceo era un poeta che esaltava l'ebrezza che dava il vino, oggi lo definiremmo un buongustaio che si godeva la vita. La traduzione di quei versi è “quando bevo del vino, se ne vanno tutti i pensieri, cosa a me importa dei guai, cosa a me importa dei pesi, cosa a me importa dei malanni?”
Invece il professore di matematica e fisica era (a mio avviso) una persona molto mediocre, non solo per la poca conoscenza della sua materia, ma anche e soprattutto per la scarsa intelligenza. Io non sopportavo lui e lui non sopportava me. Io ero il più bravo della classe in matematica e passavo i compiti a tutti quelli che me lo chiedevano. Ma lui a me dava sempre sei, mentre ad altri, a cui io passavo il compito dava sette (come ho detto ai miei tempi il sette era il voto massimo) perché loro avevano sette anche in latino o in greco. Ma a me quel sei pesava tantissimo e non perché mi paragonavo con gli altri ragazzi a cui passavo il compito, ma con me stesso. Infatti a me dava sette in fisica che io studiavo solo superficialmente, e quando ero interrogato le leggi della fisica non le ripetevo a memoria come gli altri, ma le spiegavo riportando diversi esempi ed ampliando l'interrogazione ad argomenti pratici tratti dalla lettura di molti libri, che mi forniva un altro mio zio, oppure da riviste scientifiche che amavo comprare.
Io, più volte avevo detto al professore, con estrema franchezza, che mi sentivo più preparato in matematica che in fisica, per cui ritenevo di meritare il voto più alto in matematica e non in fisica. Ma il professore imperterrito continuò a seguire il suo giudizio: sei in matematica e sette in fisica per tutti e tre gli anni del liceo. La rivincita me la presi alla maturità. Quell'anno fu nominato come presidente della commissione di maturità un professore di matematica dell'Università, un comunista, di quelli mangiapreti e arrabbiati. Era prevenuto contro il nostro collegio. La mattina in cui la nostra classe faceva esami di matematica e fisica lui arrivò in ritardo e tre ragazzi riuscirono a fare l'esame di matematica e fisica con il commissario (e superarono la materia). Poi lui si sedette accanto al commissario di matematica e si mise a interrogare e bocciare tutti quelli che fecero esami con lui. Io fui il solo a fare esame con lui ed a superarlo. Finiti gli esami incontrai il mio professore di matematica e gli feci notare che tutti quelli a cui lui aveva dato sette in matematica erano stati rimandati a ottobre mentre io avevo superato l'esame con il professore d'università. Gli dissi, anche, ora che potevo parlare tranquillamente, che per tutti e tre gli anni del liceo ero stato io a passare i compiti a tutta la classe.
Il professore di filosofia era un padre gesuita, un filosofo. Parlava e spiegava per tutta la lezione, ma io non riuscivo a tenergli dietro, i suoi erano voli pindarici che non riuscivo a seguire. Studiavo con attenzione il libro, ma al momento dell'interrogazione lui mi portava sempre da tutt'altra parte. E' vero che mi dava sei, credo che premiasse la mia buona volontà, ma io ero pienamente cosciente che non sapevo la filosofia. Studiavo, leggevo anche altri libri, ma non riuscivo ad essere soddisfatto di come rispondevo alle interrogazioni. L'ultimo anno, dopo il primo trimestre, andai da mio padre e gli dissi che non mi sentivo adeguatamente preparato in filosofia. Mio padre, dopo qualche giorno, mi mandò da un professore che lui conosceva. Questo conosceva il padre gesuita e fece con me un'ora di conversazione per vedere un po' la mia preparazione. Alla fine mi disse di comprarmi il Bignami (che era un libro che riassumeva il corso di studio di tutto l'anno scolastico) e portargli il primo capitolo per la prossima volta. La volta successiva mi fece ripetere il capitolo e lui mi guidava e mi portava a fare i ragionamenti e le comparazioni mentre io ripetevo. Lui non spiegava la lezione nella maniera classica, mi assegnava il compito e me lo faceva ripetere. Tutto il lavoro stava nella ripetizione e nella discussione che mi portava a fare. Così svolgemmo tutto il programma. Alla maturità feci un buon esame e il commissario di filosofia mi diede sette.
Il mio insegnante di religione fu un gesuita, era un teologo, che poi divenne anche famoso, il quale, pur conoscendo le mie idee (ero agnostico), mi dava nove (ero l'unico alunno a cui dava quel voto). Spesso si soffermava con me, sia in aula che fuori, a ragionare, e mi ripeteva che “la fede è un dono di Dio”, un dono, che io non avevo ancora avuto, ma che lui sperava arrivasse presto (in merito vedi i miei commenti al libro Ipotesi su Gesù).